Shutter Island

Sul finire della pellicola, a pochi istanti dallo scorrere dei titoli di coda, ancora in trepida attesa per il chiarimento finale, per l’illuminante colpo di scena last minute, a dipanare una matassa di più di due ore, mi sono chiesta: E se finisse così?

Il film è finito così. Con un punto interrogativo inquietante quanto il mare in tempesta che non smette di minacciare le irte scogliere dell’isola dall’inizio alla fine del film.

Film godibile, a mio avviso, fa del dubbio il filo conduttore di tutta la trama. Difficile parlarne senza svelare dettagli che smorzerebbero la curiosità di chi il film vorrebbe goderselo con la suspense che merita. Tuttavia, per non correre questo rischio, ci si può limitare a raccontare l’incipit che contiene in sè particolari utili alle menti più aguzze, per destreggiarsi tra allucinazioni, ricordi, persone reali e fantasmi del passato.

Nel 1954, in piena psicosi anticomunista, l’agente federale Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio) viene inviato, insieme al collega Chuck Alue (Mark Ruffalo), a Shutter Island, isola al largo di Boston che ospita un ospedale psichiatrico/penitenziario per criminali che hanno commesso atroci delitti, per indagare sulla scomparsa di una “paziente” che pare essersi dileguata nel nulla. Dopo aver battuto l’isola in lungo e largo ed interrogato detenuti e staff, i due detective non arrivano a capo di nulla, salvo notare una evidente reticenza, da parte dei malati, degli inservienti e degli stessi dirigenti medici, a fornire informazioni utili a ricostruire le ore immediatamente precedenti la fuga della malata. Dopo un violento uragano, che incupisce ancora di più l’atmosfera tesa e rarefatta dell’isola, la paziente scomparsa viene ritrovata altrettanto misteriosamente.

A questo punto la trama del film comincia a farsi intricato labirinto di mezze verità ed atroci sospetti, coi frequenti rimandi – nei flashback del protagonista – ai disumani massacri dei lager nazisti o con lo spettro della terribile tortura praticata nel faro dell’isola, la lobotomia, per dare calma ed oblio alle menti più insane. La realtà si sdoppia e lo spettatore perde il senso dell’orientamento, anche se tende ad ancorarsi alla “faccia da bravo ragazzo” di Di Caprio, che – nonostante renda una ottima interpretazione – è davvero difficile poter immaginare come il cattivo di un turno. Ma il dubbio rimane: la follia è nelle menti dei pazienti o nei sadici progetti di chi cerca di manipolarle? E alla fine, quando Di Caprio si chiede: Cos’è peggio? Vivere come un mostro o morire da uomo perbene?, a quale verità dobbiamo ispirarci per definire “mostro” o “uomo perbene”?

Film godibile, dicevo, ma non tra i migliori di Scorsese. Nel cast anche Ben Kingsley, Max Von Sidow e Michelle Williams.

Per dare un punteggio in stellette, tre su cinque forse è poco, ma è onesto.


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2 Commenti

  1. falco

    Uscito dal cinema la prima cosa che ho fatto è stato quello di venire ad esternare le mie sensazioni su questo ennesimo capolavoro di Martin Scorzese e l’eccellente interpretazione del fido Leonardo Di Caprio. Credo che Scorzese con questo suo film abbia voluto affrontare un tema molto delicato, ossia quello del difficile equilibrio della mente umana e a quante sollecitazioni essa è sottoposta nell’arco di tutta una vita. Si pongono diversi quesiti a cui non sempre si possono dare delle risposte. Il primo di questi è quello della violenza ed il regista si chiede perché l’uomo è capace di tanti crimini e di tante cattiverie verso se stesso. Gli esempi, nel film, sono molteplici quello principale è l’orrore della guerra, il più doloroso i crimini nazisti e non solo. La denuncia è quella dell’ipocrisia degli esseri umani capaci di nefandezze inenarrabili al punto da autotraumatizzarsi ( trauma dal greco lesione) cancellando inconsapevolmente tutto dalla mente. Il finale, Cinzia, è chiarissimo. E’ l’amara realtà della sconfitta dell’uomo. La sconfitta di quella parte di uomo consapevole che, come una nave in balia della tempesta, vede la salvezza nella luce di un faro posto sulla scogliera. Il faro infatti, nel film, al contrario di quanto si lascia credere non nasconde alcun pericolo ma è il posto in cui l’uomo, messo alle strette, viene, per l’ennesima volta, reso consapevole delle proprie responsabilità. Le speranze poste in questo luogo saranno ancora irrimediabilmente disattese e quindi quel posto di consapevolezza e sperata salvezza si trasforma in irreparabile baratro.

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