Era il 1925, il 3 gennaio, quando un altro “cavaliere”, tale Mussolini Benito, insignito del titolo di presidente del Consiglio (di lì a poco grazie al pacchetto legislativo inventato da Alfredo Rosso, “capo del governo”, dicitura che oggi qualcun altro ha riesumato, senza titolo giuridico a farlo), teneva un discorso alla Camera dei Deputati. In quella circostanza, che gli intellettuali di regime esaltarono per vent’anni esatti, il “duce” rivendicò le responsabilità sue personali e del Pnf nel delitto Matteotti: e diede avvio alla “seconda ondata”, un ritorno allo squadrismo che preludeva allo smantellamento di quanto rimaneva dello Stato liberale, nell’inerte acquiescenza di Sua Maestà Vittorio Emanuele III.
Aveva inizio l’edificazione del regime fascista, che, a dispetto dei suoi limiti, delle incongruenze e delle deficienze, sarebbe diventato il modello dello Stato totalitario novecentesco. Quel regime, a partito unico, imparò ben presto a servirsi dei mezzi di comunicazione: la prima tappa fu il controllo diretto delle testate giornalistiche, alle quali vennero imposti forzosi cambiamenti degli assetti proprietari, sostituzioni di direttori nonché di una cospicua fetta delle redazioni (fu così che “La Stampa” passò dai Frassati agli Agnelli; il “Corriere” dagli Albertini ai Crespi). Poi venne l’uso della radio (l’Eiar era nata nel 1924), e soprattutto del cinema: “La cinematografia è l’arma più forte”, ripeteva Mussolini, citando, forse senza averne conoscenza diretta, Majakovskij. E intanto una pletora di istituzioni nasceva, per la cultura alta e bassa, dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (1925), fino al Minculpop, il ministero della Cultura Popolare, nato nel ’37, dalle ceneri del Ministero Stampa e Propaganda, che a sua volta era stato il punto d’arrivo di un Sottosegretariato, costituito con il I Governo Mussolini, nel novembre ‘22, come Ufficio Stampa e Propaganda alle dirette dipendenze del duce.
Insomma, il fascismo capì e seppe servirsi degli strumenti della moderna “comunicazione politica”, e in generale di quelli volti a formare e conformare gli italiani. Il sogno mussoliniano era l’uomo nuovo, secondo del resto un principio-guida di ogni totalitarismo. Ma “l’italiano di Mussolini” (come recitava il titolo di un romanzo di successo), doveva nascere dalla micidiale accoppiata “libro e moschetto”, dall’imbonimento e dalla conformazione mentale degli italiani e dall’apologetica della guerra, con tutto ciò che significava: culto della virilità, esaltazione della violenza, istruzione militare permanente, disegni colonialistici e imperialistici, obbedienza cieca e assoluta al “Capo”…
Ebbene, quel regime, defunto con il suo capo, il 28 aprile del ’45, ha non soltanto conservato dei rami sotterranei, che ogni tanto affiorano, ma si riproduce oggi in nuove forme: anche se, a ben vedere, i meccanismi fondamentali restano, in parte, gli stessi. Il berlusconismo, dopo il fallito tentativo del craxismo, si propone oggi come un’ennesima rappresentazione della antica “tentazione dittatoriale” della storia italiana. Che, dopo la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, è divenuta la tentazione fascista. Il Capo, innanzi tutto; che come Minosse “giudica e manda”; i suoi collaboratori sono esecutori passivi; guai a chi osi anche solo prendere la parola, senza che il Capo gliela conceda. La novità, rispetto al passato, consiste nel denaro: un fiume di quattrini, di benefits, di privilegi che il Capo concede; l’altra novità è la privatizzazione del ruolo pubblico, e la pubblicizzazione della figura privata. Il Capo riceve nelle sue ville innumerevoli; il Capo fa le riunioni di gabinetto ristretto davanti a una spigola al sale, servita in preziose stoviglie, annaffiata da un eccellente bianco secco, in una delle sue tante sale da pranzo, in una delle sue tante dimore private. Il Capo assume, più che assegnare; il Capo paga, più che scegliere; il Capo è pur sempre a capo di un impero industriale.
E in tutto questo, non v’è scandalo se qualcuno osserva che “il fascismo era meglio”: lo scrisse Alberto Asor Rosa, in un ormai celebre articolo apparso su “il Manifesto” nello scorso agosto 2008: suscitando un vivace dibattito, che costrinse poi l’autore a precisazioni. Ma aveva torto l’illustre intellettuale? Io credo con lui, che questo fascismo, che ci si ostina a non cogliere nelle sue essenze non soltanto liberticide, ma tendenzialmente totalitarie, sia almeno altrettanto nocivo di quello storico: mutatis mutandis, naturalmente.
No, non abbiamo ancora in galera gli oppositori; ma gli oppositori, a parte qualche “adunata dei refrattari” come questa (e alcune altre, per fortuna, non tutte piccolissime), dove sono? Non fanno paura, e dunque si concede loro lo ius murmurandi. Se ne godeva anche nell’Impero Romano! E anche sotto Benito le barzellette sul regime fioccavano.
Ma dietro questo “diritto” a rimanere negli interstizi, a camminare rasente i muri, prima che tutto il sistema della comunicazione e della formazione (di qui l’importanza di mettere le mani sulla scuola, oltre che sulla radiotv e sui giornali), sia completamente omologato, che cosa c’è? C’è un attacco senza precedenti ai fondamenti dello Stato liberale: l’ho già scritto, e sono costretto a ripeterlo, a mo’ di ammonimento, a me stesso e a tutti i lettori. Stiamo attenti. Non si tratta di magistrati, di giornalisti, di comici… ; non è un problema che concerna il “teatrino della politica” (Berlusconi dixit), una legge elettorale invece che un’altra; non è un affare da legulei il dibattito sulle modifiche alla Costituzione o alla struttura istituzionale dello Stato: si tratta di tutti noi. Si tratta dell’arena pubblica, in cui la nostra esistenza è comunque collocata. È la politica che si occupa di noi.
Ma torniamo al Capo. Al Capo supremo. Il Capo, dunque, oggi come nel ‘922, si presenta come uno di noi, come un figlio del popolo, come uno che si è fatto da sé, l’ennesima versione del self help all’italiana. Uno che conosce i bisogni primari della “gente”, ma, diversamente da un Craxi o da un Mussolini, che avevano il senso della “grandezza”della politica, sia pure interpretata a loro modo, e persino della grandezza della nazione (perversa e pericolosa, certamente), avevano un certo rispetto per il ruolo dello Stato, giudicato comunque come un’entità a sé, di cui ci si poteva impadronire, al limite, ma che non si poteva identificare con il proprio focolare domestico, trasformarlo in affare privato; costui, il Capo del nostro tempo, vuole piacere, più che essere temuto; vuole sedurre, più che intimorire; vuole comprare, più che esser comprato (non ne ha bisogno, ormai). Il senso dello Stato, non gli compete; così come il lessico e la grammatica del liberalismo (lui, il liberale circondato e sorretto dai Pera, i Panebianco, e compagnia cantante…!) gli sono estranei. Sconosciuti.
E allora, costui parla come la gente parla (o come egli crede la gente parli), dice le cose che la gente vuole sentire, ostenta le medesime aspirazioni (le donne belle e “facili”, il calcio, la televisione), ama i divertimenti “popolari”, racconta barzellette (e i suoi ridono a comando), ed è pronto a dichiararsi (e a travestirsi) da operaio e da spazzino, ma che fa capire che lui ha in mano non solo i destini dell’Italia, ma del mondo; e che quando questo si affaccia all’orlo del baratro, è soltanto perché i suoi buoni consigli non sono stati tenuti nel debito conto: “Io gliel’avevo detto a George, ma non mi ha voluto ascoltare… Vladimir, pensaci bene, prima… Nicolas, meglio non farlo!…” Il Capo, che è un vero macho (ah, la potenza miracolosa del Viagra!), e agguanta ogni muliebre beltà che gli passi accanto, e, diciamolo, lor signore vanno in visibilio all’essere oggetto dell’attenzione di cotanto Uomo, e lui, un vero democratico, le mette pure alla plancia di comando: fanno figura, come suol dirsi, e sono deliziosamente servizievoli. E gli elettori si lustrano gli occhi, mentre le elettrici giovani e carine possono sognare di fare la velina ministeriale. D’altronde quel maschio che si sente “un diciottenne” (testuale!), ha presentato, in consessi internazionali, sovente come uno dei massimi meriti del sistema Italia, la beltà delle nostre impiegate, specie le segretarie dei capi, si capisce…
E intanto le prove generale di regime procedono, con uno stuolo di fidi, tra parlamentari, ministri, opinionisti. Intanto, in un’opposizione neppure più afasica, ma praticamente muta e impotente; passa nell’immaginario collettivo di questo nostro sfortunato Paese, un pacchetto non di misure legislative (quello è il meno), ma di idee, di sentimenti, di credenze. Passa un odio per chi ci sembra diverso dai modelli che la grande Trimurti Canale 5/Rete 4/ Italia 1 ci propina; un disprezzo forsennato per chi è indigente, bisognoso, e non pronto, ciò malgrado, a recarsi in ginocchio dal Signore di Arcore, o dai suoi proconsoli, a piatire elemosine; una sconfinata ammirazione emulativa per i ricchi, quasi creature provenienti da un pianeta extraterrestre; un totale sfascio dell’etica pubblica e degli stessi comportamenti privati, a cui, come scrivevo in una puntata precedente di questo Blog, il Centro-Sinistra non è affatto estraneo.
E dietro il sospetto di un nuovo fascismo, lustrato dalle eterne “F” – feste, farina e forca, ma oggi occorre, per adeguarsi al nuovo italian style,aggiungerne una quarta: figa (e mi perdonino le signore) –”; dietro questo luccichio, che peraltro oggi si sta appannando, causa la nuova “Grande Crisi” che i grandi strateghi della finanza non avevano previsto; finisce per riemergere dal passato anche un fascismo old style. Il massacro di Stato perpetrato nel luglio 2001 a Genova ne fu un avviso importante, e naturalmente sottovalutato. E prima in sordina, poi in crescendo, episodi di “intolleranza” (no, non c’entra nulla il razzismo, si affannano a ripetere le “autorità competenti”), da un capo all’altro della Penisola e delle Isole.
Siamo arrivati ai cartelli “Non si accettano extracomunitari”. Siamo arrivati a impedire o ostacolare la costruzione di luoghi di culto non cattolici. Siamo arrivati a incendiare le baracche. Siamo arrivati a spruzzare DDT sulle ragazze nigeriane. Siamo arrivati a pestare persone che “hanno un aspetto di sinistra”. Siamo arrivati – questa è l’ultimissima, datata 23 dicembre 2008 – a impiccare un gatto di un anziano, che in questo gatto aveva la sua unica compagnia. Un gruppo di balordi, si è detto. Ma ve la ricordate la scena finale di Novecento, Atto I il film di Bertolucci)? Un fascista (Attila, Donald Sutherland) uccide con una testata un povero micio terrorizzato, allo scopo legato a un palo. Il piacere del sangue. La sensazione di potenza. Il gusto della violenza per se stessa. Intanto, scorrono le immagini del corteo dei “rossi” che accompagnano al cimitero i loro compagni bruciati nell’incendio della Casa del Popolo, appiccato dalle “camicie nere”, le quali intanto, protetti dalla forza pubblica, scherniscono gli sconfitti.
Ecco, stiamo attenti: pensando al nuovo conio di un “fascismo dal volto umano”, il telefascismo, nell’era della Comunicazione Globale, sotto l’occhio protettivo di Grandi Fratelli, non dimentichiamo che nel codice genetico di ogni fascismo c’è la violenza, il disprezzo per i diversi, l’odio per “i rossi”. E del resto una mano di vernice si fa presto a darla a chicchessia. E poi dichiararlo nemico pubblico.
Tratto Da Micromega..