martedì 03 Dicembre 2024

La Vertenza 3 Confini.

Con qualche modifica il testo che segue è quello letto su mia richiesta da Gianni Maragno, che qui ringrazio, il 25 giugno 2022 in occasione della presentazione a Montescaglioso del libro di Giuseppe Pierino, ex parlamentare, su Fausto Gullo, ministro comunista dell’agricoltura dal 22 aprile del 1944 al primo luglio 1946. 

Nell’articolo si parla delle lotte per la terra avviatesi spontaneamente a Montescaglioso nell’autunno del 1944 per la concessione in affitto ai contadini, in prevalenza ex combattenti, delle terre della Dogana e della masseria dei Tre Confini. E’ la storia, amara, di una sconfitta e di una truffa a danno dei lavoratori a opera della burocrazia sopravvissuta al crollo del regime e ancora capace di intralciare e vanificare la volontà dei governi della Liberazione. 

La vertenza Tre Confini

Manlio Rossi Doria, uno dei maggiori conoscitori della storia rurale del nostro paese, dirà nel dicembre 1944 che le campagne a diffusa proprietà contadina avevano “un’impronta meno servile, se non più libera, più suscettibile di libertà”.

Quella libertà i nostri contadini l’avevano cercata già nel primo dopoguerra. Parlando, ad esempio, di un’occupazione di terre fatta nel 1921 a Palmira Nuova – l’attuale Oppido Lucano, in Basilicata – il bracciante Michele Stefanile scriverà:

 «Per i contadini era il vertice di tutte le speranze, – parecchi [la] intendevano come frutto e premio di tutte le guerre – per loro si era aperta l’epoca dell’acquisto, l’epoca della sistemazione […] non si era più soggetti a fare i braccianti, o soggetti ai padroni».

Al non essere più soggetti, all’affrancamento dai padroni si attribuiva la stessa importanza che agli aspetti economici e terra e libertà erano le facce di una stessa medaglia. 

Ritroveremo le stesse emozioni durante le occupazioni che portarono alla Riforma Agraria del 1950.  Lo prova, ad esempio un assegnatario di Policoro che, interrogato da un giornalista su cosa c’era di nuovo nella sua vita, risponde: «Da due anni non si fa più il baciamano al barone Berlingieri».    

Per liberarsi da quella e da altre scorie feudali, già nell’autunno del 1943 dopo la liberazione alleata, le popolazioni del Materano diedero origine a un ciclo di lotte durate una decina di anni, molto più di qualunque celebrata lotta operaia. Di lotte non di rivolte, le rivolte non durano tanto a lungo e in ogni caso non le guidano i comunisti. 

Meno che mai un partito come quello di Palmiro Togliatti che con la svolta di Salerno dell’aprile 1944 cominciò a puntare piuttosto sullo sviluppo e sul rafforzamento della democrazia nel nostro paese. E ciò anche in accordo con Stalin che -ha scritto Gian Luca Fiocco – in ossequio agli equilibri di Yalta, non voleva che i comunisti dell’Europa occidentale cercassero il potere per via insurrezionale. La fedeltà di Togliatti a queste consegne, insieme all’inclinazione del capo della Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, a non risolvere la questione comunista con un atto di forza, fu tra gli elementi che resero possibile alla nostra giovane e debole democrazia di sopravvivere durante la guerra fredda e nei giorni dell’attentato al segretario del Pci (luglio 1948).

E ancora altre due cose il leader comunista aveva ben chiare: che l’Italia dei ceti dirigenti era stata permeata a fondo dal fascismo ed epurarla seriamente non era possibile; che non si poteva ignorare l’importanza che conservava la chiesa. Facendo quindi inghiottire molti bocconi amari ai suoi, “il Migliore” -come era chiamato- contribuì a portare il paese fuori dalle macerie materiali e morali causate dal fascismo e nello stesso tempo a far sentire italiani anche i contadini, i pastori, i braccianti che, soprattutto nel sud, non si sentivano tali.  

A mio avviso è all’interno di questo quadro, che appare oggi chiaro ma lo era assai meno all’indomani della caduta del fascismo, che bisogna guardare alle lotte per la terra nei nostri paesi.

Per capire perché si ebbero bisogna ricordare che l’agricoltura era la principale e quasi unica fonte di vita in quegli anni e che la terra apparteneva solo in minima parte a chi la lavorava. Una situazione che aveva indignato persino il prefetto fascista Stefano Pirretti, un ferrandinese che si guadagnerà l’anticipata collocazione a riposo scrivendo nel giugno del 1939:

 

Per poter liquidare completamente e definitivamente i residui del “vecchio mondo”, che tuttora vive ed opera in questa provincia unicamente ed esclusivamente agricola, occorrerebbe disciplinare –ma con leggi e non con improvvisazioni più o meno estemporanee e giovanili, che potrebbero sembrare anche demagogiche- il regime delle grandi proprietà rustiche.

Qui il latifondo è dato dal proprietario, che vive nei grandi centri, in affitto ad un industriale della terra, che è un vero e proprio sfruttatore e bagarino della stessa; sfruttatore quando la coltiva direttamente per trarre il massimo rendimento; bagarino quando sub affitta la terra meno fertile, che non è sua, al piccolo misero agricoltore che paga un canone per lo meno doppio di quello che in proporzione paga il bagarino.

 

Ma perché l’eliminazione sia completa e definitiva occorre che il sub affitto sparisca, e con esso il bagarinaggio della terra; che il latifondista, il quale finora non ha voluto o saputo appoderare la sua terra, vi sia costretto da una legge che non si presti a sotterfugi, rassegnandosi almeno al non grave lavoro di trattare non coll’unico o i pochissimi bagarini, ma con i molteplici concessionari di poderi, i coltivatori diretti; che in fine il contadino capisca [che deve, ndr], e, se occorre, sia costretto a vivere con la sua famiglia nel suo podere e non nei piccoli centri abitati,  dove tutte le energie fisiche e morali si arrugginiscono e poi si atrofizzano o incancreniscono nell’accidia, nel vizio o nell’odio reciproco.

Ciò detto, qualche numero è indispensabile per capire di cosa parliamo. Nella regione su 279.469 proprietà ben 229.166 erano fazzoletti di terra che non superavano i due ettari. Detto in altri termini, l’82% delle proprietà aveva solo il 12% della superficie mentre sull’altro fronte l’uno per cento scarso delle proprietà ne aveva il 38%. Questo dato è significativo ma non del tutto chiarificatore poiché indica le proprietà, non i proprietari il cui numero resterà forse il segreto meglio custodito della nostra Repubblica.    

Bene: vengo finalmente a parlare di Montescaglioso, dove tutto cominciò.

Ai primi di settembre del 1944, il prefetto scriveva che “circa 200 agricoltori, nella maggior parte nullatenenti e reduci di guerra, non iscritti ad alcun partito e solo in pochi a quello comunista, lamentano che il vasto e fertile latifondo del conte Galante, sito in contrada Dogana, prossima all’abitato, dell’estensione di 1600 tomoli circa…sia tenuto in fitto da un solo agricoltore…che dal nulla è riuscito a raggiungere invidiabile posizione economica. Gli stessi gradirebbero che la tenuta fosse suddivisa in piccoli appezzamenti e data in fitto ai meno abbienti, disposti a corrispondere qualsiasi canone in modo da sollevarsi dalla miseria nella quale versano.

Secondo voci incontrollate, in caso di rifiuto l’avrebbero invasa. E a chi li invitava alla prudenza rispondevano che se non erano morti in guerra sarebbero morti nel loro paese e almeno il loro sacrificio sarebbe servito a qualcosa. 

L’affittuario capitalista, convocato con altri agricoltori, si era detto disposto a subaffittare 50 tomoli ai più bisognosi e, soprattutto, aveva sollecitato le autorità a far dissodare una parte dei demani comunali per cederli in fitto agli agricoltori bisognosi con i quali si offriva di collaborare. L’affittuario in questione vedeva lontano ed era l’ex vice podestà al quale negli anni Trenta il podestà e amministratore di Galante aveva ceduto l’intero tenuta che prima era suddivisa in circa centocinquanta quote. “Tali misure, scrive il prefetto fascista Tamburro che il governo alleato aveva mantenuto rimasto in carica, hanno calmato gli animi e sono valsi a impedire qualsiasi incidente.”.

I contadini insistono per avere le terre alla Dogana perché si trova a pochi chilometri dal paese e sono quindi adatte anche a chi non ha “cavalcature” e l’affittuario capisce che bisogna fare qualche concessione per placare gli animi e dividere la massa e quindi cede “bonariamente” un po’ di terra. Per il resto spera di rifarsi con le quote demaniali presso Bernalda, terre lontane, in gran parte da dissodare, rivendicate anche dai bernaldesi e che prevedibilmente gli assegnatari abbandoneranno.

Il 19 ottobre 1944 vale a dire nello stesso giorno della pubblicazione del decreto Gullo per l’assegnazione delle terre incolte e mal coltivate la camera del lavoro di Irsina segnala 539 ettari e ne chiede l’assegnazione. La commissione provinciale che s’insedia a Matera il 21 novembre dovrebbe deliberare invece su richieste di concessioni per oltre 7000 ettari. Il decreto prevede una celere procedura d’attuazione, ma fra il tempo per creare -e spesso improvvisare- le cooperative e quello per esaminare le domande, il tempo delle semine passa senza che per quell’annata agraria si ottenga nulla.

Nello stesso anno un altro decreto assegna al mezzadro i 3/5 del prodotto e le camere del lavoro invitano i contadini a prelevare la parte loro spettante al momento del raccolto lasciando al proprietario che si ritenga insoddisfatto l’onere di reclamare.

Ad arricchire infine il contenzioso fra agrari e lavoratori contribuisce la decretazione centrale e periferica per contrastare la disoccupazione con l’imponibile di manodopera.

Fanno parte delle commissioni comunali per decidere sulle varie questioni: sindaci, parroci, comandanti della stazione carabinieri e rappresentanti delle varie categorie agricole. Il voto degli amministratori è spesso decisivo e ciò infiamma la lotta per il controllo dei municipi. Tuttavia, l’impegno, anche il più generoso dei sindaci democratici non basta a sanare bisogni così gravi e antiche ingiustizie. Lo proverà sulla sua pelle il sindaco di Tricarico Scotellaro che scriverà: Non gridatemi più dentro, non soffiatemi in cuore i vostri fiati caldi, contadini.  

Gli effetti politici, di ricomposizione del tessuto sociale, di coinvolgimento nella vita politica di nuovi soggetti, prodotti dai vari provvedimenti del ministro Gullo sono immediati e straordinari. 

Il suo decreto non aveva invece nulla di rivoluzionario ed era sostanzialmente simile al quello varato da Achille Visocchi nel settembre 1919. Anche con questo la terra era data in concessione, in cambio di un’indennità da concordare fra le parti, per un periodo non superiore ai quattro anni. Fu quindi – ha scritto Piero Bevilacqua ne “Le campagne del mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra” – una misura che “non rivoluzionava una tradizione legislativa, né legiferava su un progetto di rivoluzione sociale. I contadini ricevevano la terra a titolo precario, mentre la proprietà rimaneva sostanzialmente non toccata nei suoi diritti. Esso era chiaramente l’espressione di un compromesso e di una mediazione politica fra i partiti di governo…”.

A parte questo il decreto aveva punti deboli che apriranno la strada a interminabili contenziosi. Come l’art. 1 piuttosto vago nel definire cosa bisognava intendere per terre incolte.

Di ciò era consapevole Ruggero Grieco che in occasione del convegno economico “Ricostruire” organizzato dal PCI nell’agosto 1945 dirà: 

L’applicazione di queste decreti fa sorgere numerose e lunghe vertenze; sembra che siano fatti non per i contadini, ma per gli avvocati.

È evidente che le masse reagiscono contro queste differenti forme di sabotaggio e l’occupazione violenta delle terre incolte e mal coltivate si accompagna spesso ad episodi sanguinosi.

Ed effettivamente I risultati pratici del decreto furono assai scarsi come si si comprende da un episodio che impegnò a fondo il ministro 

Questo: nel marzo del 45 la Società cooperativa operai industriali e agricoli (Scoia) di Montescaglioso, forte di novecento lavoratori iscritti a tutti i partiti, aveva chiesto sia la concessione del latifondo Tre Confini della vedova Lacava che di quello del conte Galante di cui si è già detto. Grazie all’abilità dell’amministratore e dell’affittuario che avevano fatto dichiarare a un dirigente della cooperativa che, essendo le terre richieste tenute a pascolo, non potevano considerarsi incolte, a quest’ultima si era rinunciato e la pressione dei contadini montesi si era scaricata tutta sulla masseria dei Tre Confini. 

La richiesta era stata regolarmente fatta e la commissione provinciale deliberante doveva riunirsi il 10 maggio, ma all’ultimo momento il rappresentante degli agrari aveva fatto sapere che non poteva partecipare. Il prefetto aveva allora ordinato di riunire comunque la commissione perché –scrisse- “in questa provincia ancora non si è fatto nulla in questo campo e non bisogna quindi dare l’impressione che si rinvia continuamente”. D’altronde, aveva aggiunto, qualunque fosse stata la decisione non sarebbe stata definitiva poiché l’ispettorato agrario non aveva ancora fatto il sopralluogo sulle terre in questione. Così rassicurata, la federazione provinciale degli agricoltori aveva autorizzato un suo iscritto, “l’unico proprietario di terre che si è trovato sul momento disponibile”, a partecipare all’incontro. 

La commissione aveva quindi potuto riunirsi e per dimostrare che la tenuta Tre Confini era mal coltivata, il rappresentante della cooperativa aveva presentato la scheda di denunzia della produzione granaria dell’annata agraria 1943-44. Da questa risultava che gli affittuari fratelli Andrisani, agrari, mugnai e pastai di una certa importanza a Matera, su 800 tomoli (circa 320 ettari) avevano seminato 7.000 quintali di grano e ne avevano raccolto 1079 quintali e ottanta chili. Uno sproposito, sicuramente una truffa riguardo alla quantità di sementi impiegate. Ma tutto serviva ad evadere gli ammassi obbligatori.

Della commissione faceva parte anche un funzionario dell’ispettorato agrario, l’ufficio che avrebbe dovuto controllare la veridicità delle denunzie di produzione, il quale non potendo sollevare dubbi su quanto aveva avallato qualche mese prima, si era rifiutato di controfirmare la concessione perché il suo ufficio non aveva fatto il sopralluogo dell’azienda. Precisamente come suggerito dal prefetto Adolfo De Dominicis che due mesi prima era stato cacciato da Grosseto con la seguente motivazione: “non possiede la capacità e la personalità, doti essenziali per tenere una simile carica, e quindi ne risulta che non è sufficientemente qualificato per tenere un ufficio pubblico di importanza e di autorità” (A. Cifelli, L’Istituto prefettizio dalla caduta del Fascismo all’Assemblea Costituente. I Prefetti della Liberazione, Quaderno della Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma, 2008, pag. 153)

Non ci chiederemo su quali basi si potesse credere che l’incapace, se non peggio, di Grosseto potesse ben operare a Matera dove fu prefetto dal 30 marzo al primo novembre 1945. 

Un periodo oggettivamente difficile per il ritorno a casa dei circa 15000 giovani che, partiti conquistare il mondo come era stato loro detto, tornarono a casa laceri e umiliati senza trovarci neanche il poco che vi avevano lasciato. Un periodo difficile per le spesso mal riposte speranze di rinnovamento che “il vento del nord” aveva fatto nascere anche da noi mentre le bardature burocratiche create dal fascismo e dalla guerra ancora restavano. E si aveva un bel cambiare nome agli ammassi obbligatori di olio e cereali chiamandoli “granai del popolo” poiché chi poteva li evadeva. E a potere era ovviamente chi produceva più di quanto serviva al consumo famigliare e sapeva ungere le ruote. E bisognava farlo poiché la diffusa, micragnosa, piccola burocrazia che in passato si faceva corrompere per il companatico, adesso necessitava di pane. 

Tutto questo considerato, ci sarebbe voluto un rappresentante del governo più credibile di quello in carica per evitare che a Matera e a Ferrandina ai primi di agosto del 1945 migliaia di persone assalirono gli uffici economici e statistici e li bruciassero. Anzi a Ferrandina, regolarono qualche conto aperto dagli agrari nel 1921 con l’uccisione del sindaco socialista Montefinese. 

Ma torniamo alla questione Tre Confini e al 10 maggio. La proprietaria, vedova Lacava, appena saputo a cosa poteva andare incontro era corsa fulmineamente stipulando in quello stesso giorno, un altro contratto con i fratelli Quinto. Una tempestività che, mentre mancavano ancora quattro mesi dalla scadenza del contratto con gli Andrisani, aveva del miracoloso. 

E nella veste di nuovi affittuari i Quinto scrivono al prefetto:

Non basta, come ha fatto la commissione, accertare che la produzione denunziata dagli attuali fittavoli è stata inferiore a quella che i terreni avrebbero potuto dare. Noi non vogliamo fare insinuazioni, ma perché non si dovrebbe poter sospettare che i fittavoli non hanno denunziato tutto il prodotto?

In ogni caso, aggiungono, se gli Andrisani non sono stati buoni coltivatori perché loro ne dovrebbero pagare le conseguenze una volta che questi, il 15 agosto, avranno lasciato la masseria? 

Dopo altri cinque giorni la concessione alla cooperativa è contestata dal procuratore della proprietaria. Nella forma perché, a suo dire, la commissione non era legalmente costituita in quanto il rappresentante degli agricoltori non aveva avuto una delega scritta. Nella sostanza perché mancante del parere tecnico dell’ispettorato agrario. Ciò stante, se il provvedimento fosse diventato esecutivo, si sarebbe creato un precedente tale da legittimare le “occupazioni di tutte le proprietà terriere della provincia di Matera, poiché nessuna di esse potrebbe dimostrarsi di essere meglio coltivata di quella dei “Tre Confini”.

Deposto il bastone, aveva poi offerto la carota di rito: 100 tomoli da fittare a prezzo equo per andare incontro ai contadini più bisognosi di Montescaglioso.

Informato della faccenda, il 9 agosto il ministro Gullo aveva chiesto al prefetto di sottoporre a riesame la pratica per perfezionare la concessione alla cooperativa. Non avendo ottenuto risposta aveva ripetuto la richiesta il 16 agosto. Per altra via saprà poi che, con una motivazione “perfettamente opposta” a quella del 10 maggio, il 31 agosto la concessione alla cooperativa era stata annullata. 

Tornerà a scrivere al prefetto il 25 settembre e il 3 ottobre. Dalla risposta, che riceverà solo il 20 ottobre, apprenderà che nel secondo pronunciamento sull’assegnazione dei Tre Confini, sulla base della denunzia di produzione dell’annata agraria 1944-‘45 la commissione provinciale aveva ritenuto che la tenuta fosse ben coltivata. Tanto da superare la produzione avuta nel resto del circondario. 

Non per questo, aggiungeva l’ineffabile prefetto, i nuovi affittuari fratelli Quinto si erano sottratti ai loro doveri di solidarietà poiché avevano messo a disposizione dei contadini ben 425 degli 800 tomoli da cui la tenuta era formata. E questo, insieme ad altri 600 tomoli bonariamente concessi dagli altri grandi proprietari della zona aveva reso possibile soddisfare le richieste di tutti i contadini veramente bisognosi. Quanto solidali e bonari fossero i nuovi affittuari lo ricorda ancora bene settant’anni dopo un loro ex bracciante Giuseppe Scocuzza: 

C’era il padrone, Antonio Quinto, diceva che a tirare l’aratro doveva metterci il bue e un comunista. Questo padrone ci diede da mangiare una pecora malata. […]Per tutta la notte siamo stati con la diarrea. Il giorno dopo mio fratello, mentre si lavorava, diede uno sguardo al gregge che pascolava e agli agnelli che saltellavano nell’erba. Disse: Ieri sera avremmo dovuto mangiare l’agnello, non la pecora malata. Intervenne il padrone: Domani non venire qui. Vatti a trovare un padrone che da mangiare ti darà l’agnello. (Intervista inedita a Peppe Lomonaco del 17 novembre 1919).

Questa non è, come suol dirsi, un’altra storia, ma un’ulteriore testimonianza su quanto grave fosse, anche sotto il profilo antropologico, il fardello che i contadini volevano scrollarsi di dosso con quelle lotte. 

Quanto alle gestione delle terre concesse, a Montescaglioso e nell’intera provincia la questione andava risolvendosi “nel modo migliore” dal momento che i contadini, a dire dell’ineffabile prefetto, preferivano “la gestione diretta ed indipendente” a quella cooperativistica prevista dal decreto Gullo. A nessuno sfugge che in questo modo la precaria unità e coesione sociale raggiunta in quei mesi, era andata in malora e che i singoli contadini erano tornati a pietire con il cappello in mano il subaffitto di una striscia di terra dagli affittuari capitalisti.

   

Mentre il complesso e truffaldino iter burocratico che abbiamo provato a delineare andava svolgendosi, dal 27 luglio a metà settembre Montescaglioso si mobilita con manifestazioni e occupazioni simboliche dell’ambita tenuta. Il procuratore della proprietaria le denuncia come fatti sediziosi che andrebbero oltre il campo dell’interesse privato “per investire quello più vasto dell’ordine giuridico costituito e della sicurezza dei cittadini nella loro vita e nei loro beni”. 

La presa di possesso da parte dei Quinto fissata al 15 agosto era stata spostata a data da definire, ma quando, la sera del 31, si sa dell’annullamento della concessione alla cooperativa il paese entra in fibrillazione. Il 10 settembre i fratelli Quinto avevano preso possesso della masseria e quella sera stessa a Montescaglioso era arrivato un funzionario dell’ispettorato agrario per fare opera di convinzione sul sindaco. I dimostranti avevano chiesto di parlargli e, ottenuto un rifiuto, avevano tentato di linciarlo. A sua difesa era intervenuto un commissario di polizia ma, preso in ostaggio dalla folla, era poi stato portato insieme al sindaco socialista ai Tre Confini per imporre ai Quinto di abbandonare la tenuta. 

Vi erano arrivati alle 21,30 e il commissario per trarsi d’impaccio aveva chiesto ai Quinto di lasciare l’azienda. Questi avevano fatto finta di aderire e i dimostranti illudendosi di aver vinto erano tornati in paese al canto di Bandiera Rossa e avevano sfilano in corteo fino a notte fonda. Ai carabinieri che li invitavano a sciogliersi avevano risposto malamente qualcuno aveva cercano di sfondare la porta della caserma. Per comprendere il clima esistente in paese, bisogna considerare che, calcolando alla meglio i cooperatori e i loro famigliari, la questione riguardava quasi metà della popolazione senza distinzioni di partito. In tale situazione avevano provato a inserirsi nel movimento anche un ex tenente dell’aviazione repubblichina e alcuni contrabbandieri fascisti che erano stati allontanati dalla camera del lavoro. Forse per creare incidenti come poi, ma non si sa a opera di chi, accadrà. 

La sera del 10 infatti qualcuno aveva cercato di forzare la caserma costringendo i carabinieri a sparare per aria, ma il giorno dopo ignoti all’ingresso del paese avevano sparato a vuoto contro una camionetta dell’Arma di ritorno dai Tre Confini. 

Poche ore dopo il paese fu presidiato dal famigerato battaglione San Marco e una decina di iscritti alla cooperativa furono arrestati.

Il 18 settembre il prefetto comunicava al loro comando in Bari che era stato utilissimo a “prevenire gravi disordini”, disponeva il rientro di 60 uomini ma chiedeva di mantenere ancora un reparto fino a “cessazione bisogno”. Il 25 settembre l’Unità titolava “A Montescaglioso c’è lo stato d’assedio” e raccontava del coprifuoco e delle bastonature a chiunque azzardasse una protesta.

Il sindaco socialista Giudino Cifarelli chiedeva intanto la liberazione degli arrestati sostenendo che la popolazione di Montescaglioso era “mite, timida e pacifica, solamente colpevole di voler lavorare per conto proprio!” 

Negli stessi giorni la direzione del Pci vi aveva inviato un funzionario che aveva poi comunica ai comunisti del luogo di avere interessato alla questione Palmiro Togliatti e il capo del governo Parri che assicurava che la questione Tre Confini si sarebbe risolta a favore dei contadini. 

Non sarà così. Nel dicembre il governo Parri cadrà e per i contadini e il frutto di due anni di passione ammonterà a qualche fazzoletto di terra concesso “bonariamente”. Cioè come era sempre stato, vale a dire all’interno degli antichi rapporti di bagarinaggio che tanto indignavano il prefetto Pirretti.

Sarà poi un altro prefetto, Giorgio Aurelio Ponte, arrivato a Matera nel novembre del 1945, che proverà a sbloccare la situazione. Lo farà, dopo aver constatato che “i proprietari terrieri si dimostrano avidi e chiusi alla comprensione dei bisogni del bracciantato e delle esigenze dei tempi nuovi”, emanando in data 3 settembre 1946  un decreto che prevedeva la concessione a cooperative  del 15% delle proprietà dai 40 ai 150 ettari e del 20% di quelle di estensione superiore. Indipendentemente da come erano coltivate.  

La sua applicazione avrebbe portato all’assegnazione di circa 40 mila ettari di terra in provincia. Il giornale economico “Il Globo” definirà l’iniziativa una “singolarissima anticipazione della riforma agraria”. Il secondo pesante attacco arriva il 20 ottobre 1946 quando a Matera, in presenza di Attilio Sansoni, il segretario nazionale della Confida (la futura Confagricoltura), gli agrari sono esortati a opporsi anche con le armi alla sua applicazione. 

Il prefetto Ponte, un funzionario di carriera scampato all’epurazione, diventerà un mito per i contadini ma il suo provvedimento sarà annullato e lui stesso nel maggio del 1947 sarà trasferito. 

 


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