Bubbico rompe il silenzio e indica la strada per uscire dalla crisi

«Bardi un console col futuro altrove», Bubbico rompe il silenzio e indica la strada per uscire dalla crisi

L’ex governatore sottolinea le mancanze del centrodestra a partire da una vera guida politica della Regione

Guardare lontano tenendo i piedi «ben piantati» nella propria terra. Molto più che in passato. Pensando al benessere sociale come un fattore di competività e all’impresa come un valore superiore a quello della sua produzione.

È questa la ricetta del “saggio” Filippo Bubbico per affrontare la crisi economica e politica scatenata dalla pandemia.

L’ex governatore e tre volte senatore, che conquistò a furor di popolo il titolo di “generale” durante la protesta contro il progetto del deposito di scorie nucleari a Scanzano, critica la «dimensione burocratica», al più «religiosa», dell’amministrazione guidata dal suo successore Vito Bardi, che il grado l’ha ottenuto alla fine della sua carriera nella Guardia di Finanza. Ma non risparmia nemmeno il centrosinistra.

Quindi da ex viceministro dell’Interno, oltre che sottosegretario allo Sviluppo economico, promuove i due ministri lucani, Roberto Speranza e Luciana Lamorgese. Inoltre si schiera a difesa dell’ex capo del Dap, il potentino Francesco Basentini, accusando il guardasigilli Alfonso Bonafede di cercare un capro espiatorio per la vicenda delle scarcerazioni.

Presidente Bubbico, lei ha fatto parte dei 10 saggi designati dall’ex presidente della Repubblica Napolitano, nel 2013, per elaborare delle proposte per uscire dalla recessione iniziata nel 2009 a causa delle bolle finanziarie esplose negli Usa. Quanto è diversa la crisi che stiamo vivendo oggi?

«Quella che stiamo vivendo è una crisi senza precedenti e spesso viene associata a un periodo bellico. Io ho l’impressione che possa risultare persino più complicata perchè un periodo bellico cancella tutto, determina la fine di una stagione e l’inizio di un’altra. Qui invece siamo in una situazione di continuità pur vivendo una situazione inimmaginabile, senza precedenti. Il crollo del pil, che è l’indicatore sintetico di una situazione di paralisi del Paese, ci racconta una storia molto difficile, che incide sicuramente sulle condizioni delle famiglie, e c’è la preoccupazione che possa incidere ancora di più con il passare del tempo. Perché in ambiti economici e produttivi è semplice perdere punti è complicatissimo guadagnarne. Riportare a regime una macchina complessa non è una cosa semplice. Da questa crisi potrebbero nascere dei cicli positivi  solo se saremo in grado di abbandonare gli impicci e i vincoli del passato. Impicci di natura sociale, di natura amministrativa e di natura economica, che hanno impedito al Paese nel suo complesso di risultare particolarmente competitivo. Laddove la competitività andrebbe misurata non solo in cicli di prodotto ma anche in termini di qualità sociale. E un indicatore della qualità sociale è il benessere dei cittadini».

Come giudica i provvedimenti che sono stati presi da da questo governo. Sia di quelli già avviati come le garanzie su una prestate sui finanziamenti alle aziende con la cassa?

«Io trovo molto importanti i provvedimenti di natura sociale. E’ fondamentale in questa fase non abbandonare nessuno, e che i diritti possano valere per tutti. Gli interventi di natura sociale non sono mai sufficienti ed è utile continuare su questa strada. Per quanto riguarda le imprese sono sicuramente importanti le misure adottate, ma la partita si gioca nella creazione di contesti nei quali fare impresa possa risultare più facile e l’impresa, il lavoro e la produzione assumano un valore superiore al semplice ciclo produttivo. Quindi le aziende oggi hanno bisogno, certo, di liquidità, ma devono cercare anche l’innovazione e la valorizzazione delle risorse umane. Ormai risulta di tutta evidenza l’importanza che ha nei cicli produttivi la qualità degli uomini. Tutto questo dovrebbe significare grandi investimenti nella formazione, nella ricerca. Non per alimentare la solita retorica, ma per aprire una stagione, questa sì, equiparabile a quella che abbiamo vissuto nel dopoguerra. Quando scuola esisteva dove esisteva un bambino. Quando attraverso abbattimento barriere accesso fu data la possibilità a bambini provenienti da famiglie povere di accedere a percorsi di formazione che hanno fatto grande l’Italia. Mi pare che anche in ambito europeo le priorità che vengono segnalate sono importanti. Vi aggiungerei la qualità della vita».

Lei crede che ci si debba fidare dell’Europa nonostante i dubbi sollevati da più parti sulle politiche adottate finora?

«L’Europa può fare tanto bene e può fare tanto male. Noi dobbiamo tornare alle migliori visioni dell’Europa, quando l’obiettivo condiviso era creare delle condizioni di crescita culturale, di avanzamento umano, e di affermazione dei diritti. Recentemente abbiamo vissuto una fase di stagnazione del pensiero e della proiezione. Credo sia il momento di tornare a darsi degli obiettivi condivisi. E’ anche evidente che i processi di globalizzazione vanno rivissuti, rideclinati rendendo attuale lo slogan fortunato di combinare locale e globale. Credo che la sfida sia quella. Non chiudersi in recinti ma neanche perdersi. Avere la capacità di scrutare un orizzonte lungo ma con i piedi ben piantati per terra». 

Nel 2013 elaboraste una serie di proposte per l’economia italiana. Proposte in parte ancora irrealizzate. Pensa che qualcuna di queste possa essere recuperata per affrontare la crisi scatenata dalla pandemia?

«Io penso che vada recuperato il metodo del buon senso. Bisogna avere capacità di far valere pensiero critico. Non chiudersi in schemi ideologici. Far valere nel merito i valori della Costituzione. Oggi per noi costruire un manifesto politico progressista potremmo tranquillamente riferirci agli articoli della nostra Costituzione. Il punto fondamentale è la libertà della persona, la costruzione delle pari opportunità, e la capacità di guardare ai bisogni, ma anche di valorizzare i meriti. Serve un atteggiamento aperto, critico, anche autocritico. Poi le soluzioni arrivano. Nel 2013 non avemmo la forza di osare di più. Nel 1976 il segretario del Partito comunista, Enrico Berlinguer, attirandosi anche la critica della parte più a sinistra della sinistra, lanciò l’idea del compromesso storico, quindi della condivisione di un percorso con un partito moderato, la Democrazia cristiana, per far rivivere l’interesse nazionale e andare incontro alle esigenze della cittadinanza. I compromessi in politica non rappresentano un cedimento perché la politica non è testimonianza dei propri ideali ma capacità di realizzare nella misura massima possibile il bene collettivo. Nel 2013 Bersani avrebbe dovuto trovare un accordo con Berlusconi per eleggere un presidente della Repubblica, i presidenti di Camera e Senato, e per varare un governo che avesse l’obiettivo di rimettere in movimento il Paese superando la crisi drammatica nata nel 2008. Aver rinunciato a quella sfida, perché poteva apparire una rinuncia ai propri ideali, ha determinato la situazione che dopo abbiamo conosciuto del pressappochismo dell’avventura, dell’incapacità di presidiare i temi dell’attualità».

Pensa che oggi sarebbe possibile un altro compromesso storico?

«Oggi la situazione è completamente diversa. Mancano quelle condizioni, la solidità di forze politiche capaci di far valere i principi democratici al proprio interno. Il 2013 forse era la data ultima per tentare di recuperare quel patrimonio. Poi tutto è andato disperso e ha prevalso la logica del disagio fatto sistema, del rancore. E con quei principi non si va da nessuna parte come stiamo vedendo. Oggi non si tratta di chiudere un compromesso ma di partire dalla realtà che stiamo vedendo, ovvero della profonda frantumazione dei luoghi dove si sviluppa un pensiero collettivo, e trovare un modo per garantire l’essenziale al Paese in una situazione difficile come quella che stiamo vivendo. Rimettendo in campo il noi della politica, grandi soggetti politici».

Che giudizio dà dell’operato di questo governo nella gestione della crisi?

«Il problema di oggi è che non siamo di fronte a soggetti che avvertono una responsabilità rispetto alla drammaticità del momento. Ciascuno gioca la partita per sé. Non esistono, al di fuori di una timida pronuncia in questo senso esercitata dal Pd, luoghi nei quali viene sviluppato un confronto, un’analisi. Le forze politiche in campo sono molto autoreferenziali. Corrono dietro il sondaggio. Ciascuno cerca di affermare la proprio leadership. Accadeva anche nel passato, per carità. Ma accadeva in ragione di politiche che si confrontavano. Oggi quale Quale è la differenza tra Di Maio e Di Battista? Faccio fatica a comprenderla se non per l’affermazione di un ruolo personale. La dimensione collettiva si è persa. Parlo di loro per esemplificare».

Ha letto i sondaggi degli ultimi giorni, che paiono premiare personalità politiche di tutt’altro tipo?

«Oggi c’è una domanda di partecipazione di politica. Ci si è resi conto che col rancore non si va da nessuna parte, con la contrapposizione fine a se stessa non si risolvono i problemi. Con i proclami non si fanno passi avanti. Chi esercita una funzione pubblica, un ruolo politico o istituzionale, non può permettersi di esprimere desideri. Deve invece fare i conti con la capacità di realizzare i desideri delle persone che gli ha espresso consenso. Non basta dire: è importante che i ponti non crollino più. Bisogna agire perché la messa in sicurezza dei ponti sia una cosa reale e non uno slogan retorico e banale. Occorre fatica, cambiare norme, mettere in campo risorse, definire procedure, individuare soggetti. Bisogna agire concretamente. Questa è la difficoltà che vedo».

Crede che il lucano Roberto Speranza, nella sua veste di ministro della Salute, stia cogliendo questa domanda di concretezza da parte dei cittadini?

«Il ministro Speranza sta interpretando esattamente il ruolo e il comportamento che io immagino che debba avere un esponente di governo in questo momento. Essere concreti, misurati, attenti. Anche critici. Mi pare che stia facendo bene perché interpreta la politica nella maniera più alta. E se ci pensiamo un attimo questo è non è solo frutto delle sue capacità, della sua sensibilità, ma è anche il connotato di una militanza politica. Roberto Speranza non si improvvisa. Non assume quella carica sull’onda del mandare al diavolo tutto e tutti, salvo poi adagiarsi molto bene in quello che veniva descritto come il luogo dei privilegi».

E dell’altro ministro lucano, Luciana Lamorgese, che guida il Viminale dove lei è stato viceministro, che opinione s’è fatto?

«Ho conosciuto il ministro Lamorgese come capo di gabinetto al Ministero e ne ho sempre avuto una grandissima considerazione. Credo che gli alti funzionari dello Stato debbano avere esattamente quel profilo. Luciana Lamorgese sa servire lo Stato e le istituzioni obbedendo alla legge e rispettando allo stesso tempo il ruolo e lo spazio della politica. Forse è l’ultimo esempio di quella classe di alti funzionari dello Stato che hanno servito con abnegazione e questo Paese».

Come valuta l’amministrazione regionale a un anno dalla storica conquista dei palazzi di via Verrastro da parte del centrodestra?

«Faccio una premessa. Penso che l’alternanza tra forze politiche non sia solo un dato fisiologico ma possa rappresentare un valore perché mette in campo una dimensione competitiva che può garantire dei passi in avanti. Quindi un centrodestra che sfida il centrosinistra sulla capacità di fare di più e di fare meglio è un centrodestra utile, positivo, che andrebbe salutato con grande rispetto. La mia domanda è un’altra. Ma c’è un centrodestra in Basilicata? Esistono forze politiche che governano questa Regione? Non mi pare sinceramente. Ovviamente questa situazione è figlia di tutti gli errori fatti dal centrosinistra perché nel corso degli ultimi anni ha abusato del consenso dei cittadini. Si è ritenuto che tutto fosse plausibile, possibile, tutto sarebbe stato perdonato. Invece i cittadini si sono stancati e hanno cambiato. Quindi questa situazione di guai, perché sono guai quelli che la Basilicata oggi sta vivendo, è il frutto di responsabilità ascrivibili certamente al centrosinistra. Non possiamo dare la colpa ai cittadini che hanno voluto manifestare con forza un’insofferenza verso un metodo di governo. Ed è un peccato perché la Basilicata avrebbe potuto cogliere altre opportunità, avrebbe potuto continuare il suo percorso di crescita lento, ma solido, progressivo. E oggi io da cittadino non riesco onestamente a comprendere in che direzione si sta andando. Questa è la cosa peggiore, perché si può essere in accordo o in disaccordo con un governo regionale ma quando ci sono atti, provvedimenti su cui confrontarsi. Come dicevo prima, è importante avere i piedi ben piantati per terra e guardare lontano. Avere un forte radicamento locale e una grande capacità di scorgere gli orizzonti più lontani mettendo in campo capacità innovativa, innescando dinamiche economiche, sociali e politiche. Ho l’impressione, invece, che il vissuto di Bardi, il suo presente e anche il suo futuro non stiano qui in Basilicata. Quindi è un po’ come un console mandato dall’esterno, ma per fare il console e nulla più».

Gli contesta mancanza di autonomia e capacità di visione?

«Non so. Onestamente non mi permetto di esprimere giudizi. Però vedo queste difficoltà, questa dimensione anche burocratica nell’esercizio della funzione e quando proprio va bene emerge la dimensione liturgica. Manca l’operatività, la conduzione. Il comune sentire, il comune destino qual è? Che linea di marcia?»

Da dove crede debba nascere questa visione che manca in Basilicata e nel Paese?

«Sono convinto che stiamo capendo quanto sia grave aver perso il patrimonio costituito dai partiti. I partiti sono fondamentali. Rappresentano un valore inestimabile perché offrono a una moltitudine di persone la possibilità di confrontarsi, di condividere, di migliorare se stessi, di correggere gli errori che collettivamente si fanno, di arricchire la propria dimensione individuale con quella collettiva. Oggi la frammentazione, la solitudine, col paradosso che siamo tutti contenti ma tutti sempre più soli, rappresenta un disvalore».

Da uomo delle istituzioni che idea s’è fatto della vicenda delle scarcerazioni e dello scontro tra il ministro della giustizia Alfonso Bonafede e l’ex pm Nino Di Matteo, sulla mancata nomina di quest’ultimo al Dap quando venne incaricato il lucano Francesco Basentini?

«Scandaloso. Io condivido il pensiero di chi sostiene che il ministro avrebbe dovuto dimettersi un minuto dopo. In altre occasioni è accaduto. Quando i politici erano i tromboni odiati e vituperati da tutti, i politici avevano la forza di dimettersi per obbedire ai principi di dignità e di rispetto per le istituzioni. Allora serve coraggio e anche l’autonomia e la forza di far valere le proprie ragioni. Quindi se il ministro riteneva di non nominare Di Matteo era nelle sue prerogative, ma non si può fare il doppio gioco. Non si può esercitare il ruolo dei giustizialisti e degli anti-giustizialisti, che poi così non è. Perché forse la vera trattativa, non quella su cui si sono consumate storie umane, vicende politiche e giudiziarie, potrebbe essere dietro quanto che sta accadendo in questi mesi. “Li mando in galera di nuovo”, dice il ministro. Ma quando venivano scarcerati dov’era? E la cosa più grave, da quello che emerge, è che si vorrebbe scaricare la responsabilità sul capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria buttando la croce addosso a un magistrato che finora non ha detto una parola dando prova di grande dignità e di grande senso delle istituzioni. La mia preoccupazione è che si voglia buttare la croce addosso a Basentini per nascondere altro».

Presidente, è vero che dopo aver lasciato la politica si è dato all’agricoltura? Fa come Cincinnato?

«Faccio come una persona normale. Io sono architetto ma nel 1995 mi sono cancellato dalla cassa nazionale di previdenza e assistenza, e se togliessero pensioni e vitalizi per noi privilegiati sarei privo di qualunque forma di sussistenza. Ho la presunzione di affermare che con dignità avrei potuto riprendere a fare l’architetto, perché penso di poter esercitare con un rendimento in termini di qualità medio. Non penso di eccellere né di essere l’ultimo fesso della compagnia. Ho deciso di non farlo. Non ho messo quattro ragazzi a disegnare mentre io sviluppo relazioni valorizzando tutte le conoscendo che ho accumulato in questi anni passati, arricchendomi. Ho preferito occuparmi dei terreni di mio padre e di mio suocero andando in campagna la mattina alle 6 e tornando alle 2 e mezza, alle 3, e quando necessario facendo la giornata come un tempo: “da sole a sole”. Lo faccio con grande soddisfazione».

E che cosa coltiva?

«Coltiviamo frutta, agrumi, olive, frumento. E’ un lavoro molto impegnativo. Anche faticoso. Io normalmente non ho mai assunto posizioni di auto-promozione, ma ritengo di fare le cose col massimo dell’impegno. Con lo stesso impegno con cui penso di aver servito la Regione Basilicata e il Paese, oggi mi occupo delle piante, della terra e della produzione agroalimentare».

Quindi come giudica la protesta degli assessori all’Agricoltura delle regioni amministrate dal centrodestra, incluso il lucano Francesco Fanelli, contro la proposta del ministro Teresa Bellanova i regolarizzare i lavoratori stagionali?

«Ogni tanto penso che andrebbero fatte distinzioni parlando di centrodestra. Anche se qui in Basilicata, in realtà, non vedo nulla. Penso alle differenze tra il Veneto e la Lombardia sulla sanità, col primo che ha saputo gestire la vicenda coronavirus con intelligenza, lungimiranza e responsabilità. Ha espresso capacità di governo dando valore alla sanità pubblica e mettendo in primo piano la componente territoriale del sistema sanitario che è stata la carta vincente. Non nuovi ospedali ma nuovi servizi sanitari. Il ministro Bellanova ha individuato un problema che esiste. Noi abbiamo da tempo, anche in Basilicata, presenze di stranieri che sono privi dei permessi di soggiorno, alla mercè di organizzazioni più o meno criminali, e oggetto di ipersfruttamento. Regolarizzare queste persone significa sottrarli al ricatto e ridare diritti e dignità e mettere la stragrande maggioranza delle aziende agricole nella condizione di lavorare sentendosi tranquilla. Nessuno ha voglia di subire procedimenti penali per sfruttamento della manodopera o utilizzo di lavoratori clandestini. Gli imprenditori vorrebbero anche assumerli versando i contributi, ma non possono farlo perché non hanno il permesso di soggiorno. Legalizzare queste presenze è un’operazione rilevante dal punto di vista dell’ordine pubblico, della dignità delle persone e dal punto di vista produttivo. Il Pd dovrebbe avere la forza di rivendicare queste posizioni senza nascondersi temendo che Salvini possa rimontare nei sondaggi. Perché le mezze verità lasciano molti dubbi. Quando invece le questioni vengono affrontate direttamente e in maniera esplicita le persone giudicano. Gli stranieri non sottraggono il lavoro agli italiani. Ne danno di lavoro. Basta vedere i conti correnti che vengono accesi, i contributi versati, la domanda di servizi. Quanti consulenti lavorano. Quanti avvocati lavorano».

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