giovedì 19 Dicembre 2024

La guerra dei soldati semplici

Qualcuno ha detto che quando muore una persona anziana, è come se bruciasse una biblioteca. Porta via con sè il sapere, la storia, le memorie che gravano sui suoi anni. La vita prosegue ugualmente, ma perdiamo qualcosa che solo il ricordo può parzialmente restiturci.
Questa è la storia di Alfonso Ditaranto, nato a Montescaglioso il 07/10/1920, di cui sono orgogliosamente nipote. Ho deciso di attingere alle sue lucidissime memorie e raccontare una delle sue tante storie. 

“A 85 anni, ricordo ancora un motivetto: Si schiuderanno le rose/mentre tu verrai da me/canterò al vento la cose/più belle per te./C’è una chiesetta, amor/nascosta in mezzo ai fior/t’aspetterò laggiù/e non ti lascerò mai più.
Queste note amabili mi riportano indietro nel tempo, al 3 gennaio ’41, quando ricevetti la chiamata alle armi: caserma 1° Ottobre, 10° Reggimento Genio di Santa Maria Capua Vetere, battaglione Telegrafisti.
Mentre la Libia era occupata dagli alleati e la guerra per l’Italia volgeva al peggio, a Capua piccoli svaghi e brevi licenze per far ritorno al paese, allontanavano, seppur per poco, la paura generata dalla guerra.
Nel ’42, fui assegnato all’8° Reggimento Genio dell’8° Corpo d’Armata e trasferito sul fronte greco.
Arrivato in Grecia, mi resi conto che il paese non aveva subito gravi danni materiali per via della guerra, ma economicamente era disastrato e la popolazione pativa la fame. Della Grecia ricordo l’umiltà della gente e gli incantevoli panorami sul mare. La permanenza in territorio ellenico fu caratterizzata da una serie di spostamenti nel Peloponneso, fino a quando nel ’43, passammo sul continente, ad Agrinion.
Eravamo in questa città, l’8 settembre, quando l’Italia firmò l’armistizio. Quella sera ero seduto tra le prime file del cinema all’aperto, insieme ai miei commilitoni. Lì ci giunse la notizia dell’armistizio. Non ci fu alcuna esplosione di gioia: ci sussurrammo l’un l’altro la notizia all’orecchio, abbandonando man mano la platea finchè il cinema rimase deserto. Nessuno ammetteva il terribile dubbio che attanagliava ognuno: come avrebbero reagito i tedeschi.
Se, per un verso, ci si era aperto il cuore alla speranza, poichè la guerra sembrava finita; per l’altro, ci sentivamo abbandonati a noi stessi in quanto il governo italiano non ci dava disposizioni su come comportarci con i tedeschi che presidiavano la Grecia, insieme alle truppe italiane: trattarli da nemici ed affrontarli con le armi o architettare qualche altra cosa?
Volemmo credere ad un’altra ipotesi, cioè che, venuta meno l’Italia, anche la Germania sarebbe caduta in breve tempo. Disorientati, cedemmo alla promessa dei tedeschi di riportarci in Italia, consegnando loro le armi.
La promessa non fu mantenuta.
Iniziò così la deportazione in Germania: 40 soldati per vagone, ammassati con il bestiame, con la speranza ancora viva nel cuore di salire su un treno diretto in Italia.
Mentre gli alleati bombardavano l’abbazia di Cassino e lo sbarco in Normandia era ancora lontano, quel treno ci portò a Brema, lager di Bremenvar. L’orrore del viaggio si poteva presagire dal raccapricciante spettacolo di corpi impiccati ai fili del telegrafo lungo la ferrovia.
Un nudo tavolaccio sprovvisto di pagliericcio, una minestrina di patate lesse e 200 gr di pane, erano vitto e alloggio che ci spettavano nel lager. Venimmo schedati; sulle nostre divise fu apposto il marchio I.M.I. (Italiani Militari Internati). Fui scelto come operaio da impiegare in una fabbrica del posto, insieme ad altri del mio gruppo. Ben presto dovetti familiarizzare con torni, frese e trapani, strumenti a me sconosciuti.
Brema era una bella città, segnata dalle cicatrici della guerra: donne coi capelli tagliati corti, di provenienza polacca, russa o rumena, erano impiegate a sgomberare le strade dalle macerie dei bombardamenti. Sopravvissi anch’io a due bombardamenti: sento ancora le voci delle vittime agonizzanti sotto la macerie, che i sorveglianti ci impedivano di soccorrere.
Il 16 aprile del 1945, ero al confine con l’Olanda, dove una parte del gruppo fu trasferita per scavare delle trincee. Improvvisamente sentimmo rumori di cingolati. Uscimmo dalle abitazioni e con la gioia nel cuore, accogliemmo le truppe alleate: si tornava a casa.
In realtà, ci vollero quattro mesi per il rimpatrio. Lasciai la Germania il 2 settembe 1945 e giunsi a Montescaglioso l’11 settembre.
Nel settembre del ’93 sono tornato in Grecia con mia moglie e mia nipote. Ho ripercorso i luoghi visti quando avevo vent’anni; ho fissato quegli incantevoli panorami e ho pensato, tanto.”

P. S. Nonno Alfonso ha 85 anni, trascorre le sue giornate tra la panchina di via Indipendenza, di fianco alla Chiesa di S. Lucia, qualche visita agli amici più cari, il quiz di Amadeus alle 19,00 e le partite di calcio. E’ vedovo da 8 anni, ma qui dovrei raccontare un’altra storia.


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