Estratto dall’0pera del reverendo don Michele Nobile non ancora lavorato dal team del Prof. Fontana ma da un socio del nostro Circolo.
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Brigantaggio nell’ex regno di Napoli.
I soldati borboniani sbandati e ritirati nei propri paesi non vivevano con la loro pace, perché dai liberali e dai loro adepti venivano scherniti come reazionarii, come nemici della libertà; sicché alcuni per godersi un po’ di pace, se ne andarono nei proprii fondi di campagna, ed ivi si stettero; altri poi, o perché troppo gelosi del giuramento dato al loro re, o per sfuggire all’ingiurie di borboniani e reazionarii, ed alle minaccie e persecuzioni, si diedero veramente alla campagna, si costituirono in diverse compagnie più o meno di numero, alle quali poi si dette il nome di brigantesche.
Montescaglioso, quale città di gente pacifica, non avrebbe, forse, dato contingente alcuno a sì malefica genia, se pochi zelanti liberali non avessero preso a molestare ed inquietare, con le allora solite ingiurie di borboniani e reazionarii, i soldati sbandati e ritirati. Sicché tutti, ad evitare insulti e molestie, se ne andarono, con grande loro incomodo, a trattenersi di notte nei fondi proprii di campagna, o in quelli di parenti ed amici. Quando poi stimarono restar tranquilli, rincasarono. Ma il capitano della guardia nazionale Notar Sig.r Francesco Contangelo, con qualche suo adepto, andava di nottetempo ad origliare dietro le porte dei poveri ex soldati, taluni dei quali lasciava indisturbati, e tal’ altri, con strepito batteva la porta, dicendo che si apparecchiasse per la partenza, perché richiamati dal nuovo governo, ciò che non era. Questa burletta fu maggiormente usata verso Vito Leonardo Scocuzza, e verso Rocco Chirichigno, detto Coppolone, tanto che, per ben due volte, si fecero partire per Potenza (lontana circa cinquanta miglia), sotto mentita chiamata dal Comando militare. Colà giunti, sentivansi dal Comandante che non vi era richiamo di vecchi soldati, e che potevano liberamente rimpatriare.
Stante siffatto confusionismo di ordinamenti, il detto capitano Contangelo, di nottetempo, si portò con altri alla casa di Coppolone per arrestarlo. Questi, dopo tante loro insistenze, uscì di casa, ma sotto pretesto di legarsi le scarpe, dette degli spintoni, gettando a terra chi gli stava d’accanto, e fuggi, sentendosi appresso una fucilata andata a vuoto, tirata, si disse, dal Sig.r Giuseppe Nicola Venezia, alias Peppicola. Il Coppolone, com’era naturale, si diede alla campagna, per evitare ulteriori molestie. Lo stesso fece lo Scocuzza, e qualche altro, tenuti più a vista, temendo della loro libertà, ma senza fare del male a nessuno.
Però gli zelanti liberali, cioè i due capitani della guardia nazionale. Signori Francesco Lenge e il citato Contangelo, non che i signori Nicola Fini e Tommaso Memmoli, con i loro più ferventi aderenti, cominciarono a perseguirli per la campagna, per arrestarli. In uno dei giorni di perquisizione, trovarono nella contrada olivetata di Mattamone il fratello minore di Vito Leonardo Scocuzza, di nome Michele, pur militare ripatriato, il quale, benché malaticcio e con una mano
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affetta da malore, se ne stava anche lontano dal paese per evitare molestie e dispiacenze. Intanto fu egli legato e trascinato verso Montescaglioso; ma arrivati al punto detto Pescadiuso, e propriamente al largo della Carrera tra i fondi dei Sig.i Cifarelli e Salinari, il Memmo fa segno ad uno del seguito, di nome, Francesco Dimichino, alias Pizziddaro, che lo sparasse di dietro, e questi, senza cerimonia alcuna, spiana il fucile, tira un colpo ed uccide Michele Scocuzza, cui dà il colpo di grazia il Memmoli.
Questa uccisione arbitraria segnò l’inizio di un’era tristissima per Montescaglioso, ed anche del suo disdoro. Imperocchè altri tre fratelli dello Scocuzza maggiore, già in latitanza (erano cinque con l’ucciso), si dettero alla campagna per vendicare il fratello; ed in campagna se ne andarono pure, decisamente, quasi tutti soldati, che stimarono sfuggire le angherie liberalesche, e per timore che fosse loro riserbata la stessa sventura dello Scocuzza. Formatasi così un certo gruppo, con a capo Coppolone, si armarono di fucile, tolsero a chi uno, a chi due cavalli, e cominciarono a far vendette. Al Sig.r Giambattista Andriulli tagliarono i piedi ad un bue, e a suo fratello Sig.r Francesco recisero le orecchie a varii bovi. Al Sig.r Memmoli poi, dopo aver tagliati i piedi agli animali chiusi nella Masseria, appiccarono il fuoco, che distrusse tutto. Al gruppo dei fuggiaschi, di tanto in tanto si aggiungeva qualche altro, il quale credevasi, o veramente veniva molestato, o qualcuno di cattiva indole, sicché tutti ammontarono a venticinque. Avendo essi a dispregio e a disonore essere nominati briganti si facevano chiamare uagliuni (come qui si dicono i giovani).
La loro incolumità non durò lungamente, perché in una delle perquisizioni che eseguivansi contro di essi dalla guardia cittadina, con la quale si scontarono nella Sterpina (allora boscosa), fuggendo essi, o per timore o per numero inferiore, ne restò ucciso uno, che era forastiero, dal Sig.r Nicola Fini; il quale sperava un premio, che per intrigo, o per mentita relazione fu dal governo accordato al Giudice Schiavone di Corleto Perticara, il quale trovavasi quel giorno tra la guardia, nominandolo Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro. In un’ altra perlustrazione presero un giovane di Pomarico, il quale, poveretto, era stato tre o cinque giorni innanzi, preso a forza dai briganti, perché suonatore di Ca…., e portato a Montescaglioso lo fucilarono davanti la casa diruta del quondam sacerdote D. Antonio Musillo in contrada Le Serre.
Per le frequenti perquisizioni della guardia nazionale, e della truppa qui venuta in distaccamento, venendo a mancare il vitto ai briganti, se lo procuravano essi arbitrariamente, richiedendolo con minaccie, sicché i proprietarii nella dura e tristissima condizione o di essere da costoro danneggiati, ovvero di soffrire molestie e pene, come manutengoli, dai liberali cittadini, oppure dagli ufficiali risedenti in paese, o di passaggio, di mala voglia e con tutta circospezione si azzardavano a mandare quello che era stato imposto. Vi si viveva tra Scilla e Cariddi, come suol dirsi, cioè con la paura di patire il carcere e la fucilazione, se scoperti; o di aver uccisi gli animali o bruciati gli averi campestri. I poveri contadini, che giornalmente erano obbligati recarsi in campagna alla coltivazione del proprio terreno e di quello in affitto, ed anche quei che lavoravano per gli altri per guadagnarsi il vitto quotidiano, per sottrarre il loro poco pane dall’appropriazione arbitraria dei briganti, e per evitare disturbi paurosi dai perlustratori, i quali facilmente potevano dichiararli manutengoli e conniventi coi briganti, lo nascondevano sotto terra. Si temeva pure di
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dire la verità, perché erano fieramente battuti dagli Uffiziali, se affermavano di non essere passati di lì i briganti, o di non averli veduti in lontananza.
Una notte sono arrestati D. Giambattista Andriulli e suo fratello Francesco, benché danneggiati dai briganti, come si disse avanti; il sacerdote D. Francesco Castrignano, lo stesso Sindaco D. Pietro Casella ed altri gentiluomini, e condotti a Matera, di lì subito a Potenza perché sospettati di manutengolismo. Era tempo di vero terrore, e benché i deportati fossero stati presto lasciati in libertà per le vivaci proteste giustamente fatte al Sottoprefetto dagli altri gentiluomini.
Se i nostri voluti uaglioni non furono afferrati come altri briganti della nostra provincia, capitanati da Crocco, da Nine-nane e da altri, pur non andarono esenti da misfatti. Di vero, oltre a perseguitare chi stimavano liberale o loro spia, o chi rifiutavasi mandare commestibili o danaro richiesti, catturarono Francesco Venezia, nipote del sacerdote D. Pietro Venezia, che si disse essere stato rilasciato dietro consegna di danaro. Uccisero alla salita di San Vito, nelle prime macchie, Domenico Pietrocola, suonatore di quartino, il quale era partito solo dopo gli altri musicanti, che si portavano a Bernalda per la festa del Patrono, perché scambiato pel liberale D. Michelangelo De Pascale, a cui rassomigliava per personalità, e pei mustacchi a becco che aveva, e specialmente perché sotto gli abiti portava camicia rossa. In appresso tolsero barbaramente la vita al loro segreto informatore, addivenuto forse infedele, come si disse, Vincenzo Didio, legandolo sospeso col capo in giù ad una quercia, ed appiccandovi di sotto gran fuoco. Ed anche bruciarono in un pagliaio tre forastieri, guardiani di animali, che si credettero della montagna; dei quali le sole ossa abbrustolite furono trovate, e portate a Montescaglioso
In questi due fatti i nostri uagliuni uguagliarono, e forse sorpassarono le efferatezze dei sopra citati Cocco, e Nine-nane, e Cavalcante, i quali entravano pure nei paesi, uccidendo, e incendiando case. Vi era terrore in tutta la provincia, come in Montescaglioso, dove non si poteva più andare in campagna a vedere i proprii interessi; non si usciva più nemmeno a passeggio poco lungi dal paese, perché si aveva sentore che, i briganti paesani, frammisti ai forastieri, or qua or là, si appiattavano anche vicino l’abitato. Questa triste condizione addivenne poi troppo critica, allorché fu proclamata per la Basilicata la legge Pica, così detta, o legge marziale, con la quale ad un minimo sospetto di convivenza coi briganti si usava la fucilazione. Con questa legge furono arrestate le famiglie dei briganti, e qualche parente prossimo non sospetto.
Eppure in così tristissimo e deplorabile evento non vi mancava qualche gara personale di ambizione, come per esempio quello tra D. Francesco Contangelo, il quale non era più capitano della guardia nazionale ed aspirava essere riconfermato, e D. Tommaso Memmoli che pur vi aspirava. Il Contangelo secretamente si portò a Potenza, profittando da paese in paese della compagnia di soldati o della guardia nazionale, che erano sempre in movimento. Ivi si attivò alla meglio, e riebbe la carica di capitano. Questa fu la sua rovina, perché per la fretta di mostrarsi vittorioso in paese, dispreggiò la tardanza di un giorno, quando avrebbe potuto viaggiare insieme alla guardia mobile, che, sotto il comandante Granville, doveva essersi recarsi a Matera, non troppo lontana da Montescaglioso, e là profittare di altra forza. Per l’espressa fretta partì con la
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carrozza postale, che faceva servizio sino alla detta città di Matera, col solo paesano armato D. Luigi Palazzo, da lui condotto per socio. Corse clandestina voce che l’avversario Memmoli (liberale di conio versipelle) avesse fatto arrivare notizia ai briganti della gita del Contangelo a Potenza, essendo nota la ruggine di costoro verso di lui. Il vero si fu che i briganti forastieri, d’intesa coi nostri uagliuni, appostarono nel bosco Capulicchio di Tricarico la carrozza postale e catturarono il Contangelo il 3 agosto 1863, e lo consegnarono ai paesani suoi. Questi, dopo aver carpito del danaro, che la desolata madre poteva mandare vendendo vigne e case, e che, come si disse, gli battevano in faccia e sulla testa, sotto pretesto di esser poco; e dopo che la sera del 16 agosto, giorno di solenne festività del Patrono di Montescaglioso S. Rocco, da una collina di Pomarico, altri dissero da sopra la collina S. Antuono prossima al proprio paese, gli fecero assistere ai fuochi pirotecnici, nel dì appresso, seviziandolo crudelmente, lo fecero morire, e lo rovesciarono in un profondo burrone; ove restò ignorato per tre giorni, e sarebbe restato così e forse divorato dalle belve, se non ne avesse dato indizio il ghiattire di un cane presolo per cinghiale.
Frattanto cresceva sempre più il movimento della forza pubblica, formata da compagnie di linea, di bersaglieri ed anche di cavalleria, oltre la guardia nazionale, senza venire a capo di nulla, perché il segno di partenza dei loro tamburi, e delle loro trombe andava immantinente, come supponevasi, preaccennato ai briganti. Non mancò pure transitare la squadriglia mobile del Sig.r Pomarici di Anzi, sotto il suo comando, la quale, avendo trovato solitario, in contrada Serra maggiore, il nostro concittadino Vito Motta, e stimatolo una spia di briganti, tra quali trovavasi un nipote, lo trascinarono a Montescaglioso; dopo brevissimo tempo, quanto bastò per confessarsi, lo fucilarono sopra le cantine, in contrada Cappuccini, poco avanti al muro del giardinetto della famiglia Cantore.
Fu pure di passaggio, due o tre volte, percorrendo la nostra campagna, la cavalleria Mennuni, così detta dal suo capo D. Davide Mennuni di Genzano, il quale l’aveva congregata a sue spese. Or questa, nell’ultimo suo tragitto, scontatasi nel nostro bosco di Campagnuolo coi brigantii, nel gennaio del 1864, l’attaccò mentre costoro già si erano posti in fuga. Restò intanto gravemente ferito Coppolone, che dai compagni celatamente, e con stretto secreto, fu trasportato alla Masseria di Perrone di Ginosa, nella speranza che sopravvivesse con delle cure. Ma ivi morì, ed ivi lo seppellirono i compagni suoi.
Avvenuta la morte del capo, si ottenne quello che prima non potettesi raggiungere con buoni consigli e promesse di libertà assoluta, cioè la loro presentazione, come difatti avvenne dappoi spontaneamente. I primi a presentarsi, negli ultimi quattro giorni di carnevale, di quell’anno 1864, furono Vito Leonardo Scocuzza con due fratelli, Rocco Luigi Motta e qualche altro. Il Motta che aveva promesso ad un con colonnello di cavalleria di far acchiappare il resto dei suoi colleghi, avendolo burlato, guidando la sua cavalleria per lungo per luogo pantanoso, coll’intendimento, che affondando i cavalli, avessero avuto agio i briganti di svignarsela, fu fucilato. Si ritirarono poi, di giorno in giorno, tutti gli altri, i quali, con giudizio penale, furono quasi tutti condannati a venti anni di lavori forzati; e di tutti costoro tre solamente tornarono a Montescaglioso, riacquistandosi
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così a poco a poco la perduta quiete, la quale fu completa allor quando si allontanarono dalla nostra contrada le bande dei forastieri che pure non tardarono a scomparire.