Se ce lo avessero proposto come lettura al liceo, quanto lo avremmo odiato, per quelle sue 655 pagine. E quanto avremmo sbagliato!
I Vicerè, di Federico De Roberto, è un libro rivelazione, nonostante sia stato scritto più di un secolo fa. Una sorta di documentario choc su malcostume, corruzione, nefandezze, veleni e mali che albergano nell’animo umano, realizzato però con un’intelligente senso umoristico, quasi pirandelliano; un vademecum, indispensabile, per decifrare le logiche senza tempo che allora, ora e per sempre, stanno alla base di una società malata che diffonde i suoi virus letali nella politica, negli ordini clericali, nelle istituzioni civili e morali, quali la famiglia ed il matrimonio.
La vicenda narrata è quella di tre generazioni degli Uzeda di Francalanza, aristocratica famiglia catanese discendente dai Vicerè spagnoli in Sicilia ai tempi di Carlo V. L’arco temporale coperto dalla narrazione si incentra sulle vicende meridionali del Risorgimento italiano, dalla caduta del Regno borbonico, attraverso l’Unità d’Italia, la presa di Roma del 1870, fino alle prime elezioni a suffraggio allargato del 1882.
Il romanzo si apre con le trionfali esequie della principessa Teresa Uzeda di Francalanza, nata Risà, matriarca di una crudeltà inaudita, che anche dopo la sua morte, manovra i destini dei suoi discendenti con perfidia. Infatti l’apertura del testamento della defunta è il casus belli di una guerra in famiglia destinata a durare per generazioni.
Nei trent’anni in cui si determina la storia e la nascita dello Stato Italiano, la famiglia Uzeda (divisa da odi, rancori, avidità, sete di potere, in eterna lotta per questioni di eredità) rimane ancorata ai privilegi di casta che hanno caratterizzato fino a quel momento la propria condizione aristocratica, non ne accetta il declino, pertanto cerca di “adattarsi” ai tempi che cambiano: dapprima il duca Gaspare d’Oragua, poi suo nipote, il rampollo Consalvo Uzeda si lanciano in politica con l’obiettivo di arrivare a Roma, non già per partecipare al processo di cambiamento in atto nella società italiana, ma al contrario, per garantire la sopravvivenza del proprio status di privilegiati attraverso il potere. Emblematiche, a tale proposito, le parole di Consalvo, appena eletto al Parlamento, nel suo monologo al cospetto di Donna Ferdinanda: “La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento“.
Se il duca è una figura caricaturale, un inetto che non riesce a spiaccicare due parole per mettere in piedi un comizio o un discorso di ringraziamento per i voti ottenuti, un reazionario che si finge liberale per guadagnarsi il favore dell’elettorato (sua la celebra frase: “Ora che l’Italia è fatta, possiamo fare gli affari nostri“), Consalvo è la machiavellica concretizzazione di un trasformismo politico per cui, pur candidandosi – per mero calcolo – a sinistra, arriva ad affermare nel magistrale comizio elettorale di fine romanzo, che “l’ideale della democrazia è aristocratico“.
Più che nella dissacrazione di istituzioni civili, sociali e religiose (famiglia, matrimonio, ordine clericale dei Benedettini) lo sguardo acuto di De Roberto indugia nella caratterizzazione fisica e psicologica di uomini e donne “troppo cocciuti e troppo volubili ad un tempo“. Lo scrittore dipinge degli indimenticabili ritratti di personaggi infidi, litigiosi, avidi, rozzi, opportunisti, ignoranti, prevaricatori: il principe Giacomo, furbo calcolatore superstizioso, donna Ferdinanda, mostruosa creatura rimasta “zitella”, orgogliosa della propria ignoranza che si da alle speculazioni finanziarie; il corpulento Don Blasco, gaudente monaco benedettino che la legge del maggiorascato ha costretto ai voti, ma che non rinunzia a piaceri carnali e vive della zizzania che semina tra gli Uzeda; l’antipatica Lucrezia che sfidò la famiglia pur di sposare il borghese avvocato Giulente, salvo poi trattarlo come un pezzente; la sciroccata Chiara che pur di assecondare il proprio desiderio di maternità, fa concepire un figlio a suo marito con una cameriera per crescerlo come suo erede naturale. Una galleria di personaggi assimilabile ad una giungla, in cui chi non è come loro è un debole e perciò soccombe o impazzisce.
Il romanzo di De Roberto non fu accolto positivamente dalla critica, tanto più perchè lo stesso Benedetto Croce lo stroncò come “un’opera pesante, che non illumina l’intelletto e non fa mai battere il cuore“. Nulla di più infondato. Oggi, fortunatamente, rivalutiamo questo scritto forse grazie anche al cinema che, con Roberto Faenza, porta gli immortali Uzeda sul grande schermo, ottenendo – più che meriti cinematografici per una pellicola elegante, ma troppo riduttiva e povera del sarcastico acume del romanziere – il merito di incuriosire lo spettatore più attento che si ritrova a divorare d’un fiato, le 655 pagine che da studente liceale avrebbe odiato.
Libro fantastico portato al mio primo esame universitario: Letteratura Italiana… vale veramente la pena nonostante il mattone!;-)ma non sono riuscita a vedere la restituzione cinematografica uscita nelle sale qualche tempo fa…qualcuno ha commenti a riguardo?
topobiche_81
ho avuto modo di vedere la restituzione cinematografica proprio nella rassegna montese sguardi d’autore : un film che definirei imponente, passionale, e sicuramente drammatico. la consapevolezza che avere potere in un mondo tanto infame dominato dall’arrivismo e dalle ossessioni sia l’unico modo per sopravvivere allo stesso, è disarmante; un film che, nonostante il “peso”, resta un capolavoro! consiglio a tutti di vederlo e…
dopo i vostri consigli…chissà che non riesca ad abbattere anche io l’ostacolo mattone!
Il film l’ho visto in DVD (cosa ASSOLUTAMENTE sbagliata e sconsigliata sia per l’eleganza delle scene che – ridotta al formato “schermo televisivo” – perde di tanto, sia perchè … vuoi mettere Alessandro Preziosi in formato gigante!?!?! … e qui Corvo ci va a nozze!!!).
Devo dire che per quanto la materia si presti benissimo alla trattazione cinematografica, nel confronto con il libro il film perde. E di parecchio. Della pellicola si salvano egregiamente l’interpretazione di Lando Buzzanca, straordinario principe Giacomo; la fotografia; la sontuosità e l’eleganza delle scene; le musiche. Per il resto, se si è letto il libro, si avverte subito che l’elemento più brillante, quel cinismo dissimulato da ironia, che è proprio di De Roberto, nel film manca. E poi la storia è narrata con troppa fretta, in modo un po’ sbrigativo, non senza qualche concessione al sensazionalismo che porta il regista a condensare parti clou del romanzo o inventare di sana pianta momenti tragici inesistenti nel testo.
Personalmente, poi, non ho condiviso la scelta di narrare la storia dal punto di vista di Consalvo. Ma è solo un mio modestissimo parere, come tutto quello scritto fin qui.
Consiglierei di vedere il film, ma ancora di più di cimentarsi nella lettura del libro. Impagabile lettura.
Sarei curiosa di conoscere il parere di altri che abbiano letto il libro e/o visto il film.