Il 10 agosto in Abbazia Peppe Lomonaco presenterà una raccolta di una cinquantina di testimonianze nelle quali i montesi, compresi quelli che a Monte non vivono più o che non vi sono nati, si raccontano.
Si tratta, a mio avviso, di un lavoro di notevole interesse.
Riporto qui di seguito un brano dell’introduzione da me curata.
Chi è appassionato di storie, troverà infatti qui di che dissetarsi. Chi credeva di conoscere già le cose riportate nelle storie che vi si raccontano, avrà la gradita sorpresa di scoprirsi ignorante. Questo, perlomeno, è quanto è successo a me. Chi, infine, sa poco di cosa fosse il Mezzogiorno fino agli anni Sessanta, l’emigrazione e il lavoro dei campi, scoprirà un mondo di umiliati e offesi, di privazioni e ingiustizie, ma anche di dignità e orgoglio, di tenacia e coraggio, di affermazioni e riuscite.
Questa raccolta di testimonianze spariglia infatti sia i luoghi comuni che vorrebbero il Sud eternamente immobile ed arretrato sia l’ideologia dell’ottimismo a tutti i costi.
Le storie di vita qui riportate ci dicono che questo non è il migliore dei mondi possibili. Ma ci dicono anche che non è più neppure – per usare le espressioni di apertura del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi – “quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente”.
Fu infatti grazie all’esaurimento di quella pazienza che sembrava eterna e non lo era, all’affermarsi di un nuovo senso del tempo, al formarsi dell’anima individuale e del senso della Storia che nel secondo dopoguerra decine di migliaia di contadini intrapresero una lotta decennale – più lunga di qualunque pur celebrata lotta operaia – per ottenere terre da coltivare in proprio.
Di ciò parla principalmente il primo gruppo di queste testimonianze – grosso modo quelle dei nati fino al 1930 – ordinate secondo la data di nascita dei loro autori.
Della fame di cambiamento per il trionfo di una società che per dirsi migliore di quella fascista doveva rendersi meno iniqua prima di tutto sul piano economico. Non per caso coloro che rievocano l’uccisione del locale segretario del PNF avvenuta il 15 settembre del 1943, nel giorno dell’arrivo a Montescaglioso delle truppe canadesi, un’azione di cui – quasi a sancirne la responsabilità collettiva – mai si vollero scoprire ufficialmente gli autori; non per caso si diceva, più che soffermarsi sulla crudeltà dell’episodio, più o meno tutti ricordano ciò che fu trovato a casa sua mentre in tutte le altre si pativa la fame:
trovarono sacchi di sale, sacchi di farina, tanta di quella roba… svuotarono la sua casa di ogni bendidio: forme di formaggio che ruzzolavano per la piazza, sacchi di sale… buttarono giù la roba e appiccarono il fuoco. Sacchi di farina, sacchi di formaggio, sacchi di roba.
Quel mondo di cuccagna per pochi e di difficile sopravvivenza per tutti gli altri doveva finire.
Nell’immediato secondo dopoguerra si sperimentò perciò una forma di democrazia partecipata all’interno degli spazi di protagonismo offerti dai partiti di sinistra a braccianti e contadini. Si provò l’ebbrezza di vedere alla guida delle amministrazioni comunali non più medici, maestri di scuola e amministratori di latifondi, ma contadini. Si visse la solidarietà con cui i comunisti dell’Italia settentrionale accolsero i figli dei nostri braccianti arrestati in seguito alle lotte per la terra e si capì che non si era più soli. Nello stesso tempo, prestando orecchio a ciò che si diceva dall’altra parte per screditare quella generosità vi si diede, incredibilmente, credito. Ce ne era ancora di strada da fare!
Si aggiunge la bella copertina della raccolta curata da Mauro Bubbico.