Pagina di presentazione della mostra foto-documentaria in corso a CasaArcobaleno di Torino fino al 30 gennaio
Il confino fascista
Una delle misure che rese evidente agli occhi di tutti la natura dittatoriale del regime fascista fu il confino.
Nel 1931 l’Enciclopedia Treccani ne dava la seguente definizione:
A differenza delle sanzioni penali vere e proprie, il confino non richiede una responsabilità giudizialmente accertata per fatti considerati dalla legge come reati, ma soltanto una condotta tale da produrre un pericolo effettivo alla sicurezza pubblica o all’ordine politico, e tale da consigliare l’autorità a togliere il soggetto pericoloso dal luogo della sua residenza e sottoporlo a particolare vigilanza per un periodo di tempo che può variare da uno a cinque anni. La misura di polizia del confino completa pertanto la funzione punitiva della legge penale e non lascia la società e lo stato indifesi contro coloro che, pur non incorrendo in specifiche condanne per reati, presentano in sommo grado una pericolosità spesso più grave e più nociva di quella derivante dalla consumazione di reati scoperti e puniti.
In realtà grazie a questo capolavoro del regime, dirà con la consueta lucidità Emilio Lussu:
il pericolo di esservi mandati sovrasta su tutti. Esso rende al fascismo molto più che non la stessa pena inflitta. La pena è per pochi, la minaccia è per tutti. La legge specifica parecchie categorie di avversari del Regime che possono essere condannati al confino. É uno svago puramente didascalico. Il fatto è che vi possono essere mandati tutti, perché non solo la legge, ma la stessa interpretazione della legge, è rivoluzionaria. […] Ciò che conta non è il testo della legge scritta, ma la possibilità di applicarla quando più piaccia.[1]
La sua istituzione, nel novembre del 1926, diede luogo in ogni provincia alla creazione di una speciale commissione. Questa era presieduta dal prefetto e con criteri discrezionali, sulla base dei rapporti di polizia – a volte allertata da privati, anche anonimi -, emanava ordinanze di condanne variabili da uno a cinque anni. A seconda dei casi, il confinato era classificato come comune oppure come politico, ma, eccezion fatta per i militanti antifascisti e per i seguaci di gruppi religiosi protestanti, la distinzione veniva spesso applicata arbitrariamente.
Mussolini considerava il confino un modo “molto intelligente”per fare opera di repressione. Tanto che, parlandone alla camera, nel maggio del 1927 dirà:
Non è terrore, è appena rigore. E forse nemmeno: è igiene sociale, profilassi nazionale: si levano dalla circolazione questi individui come un medico toglie dalla circolazione un infetto.[2]
Una delle malattie che un simile programma di profilassi sarà chiamato a combattere fu l’omosessualità. Vista come qualcosa che stava fra la patologia e il vizio e di cui era meglio non parlare neppure, era una condizione come poche altre considerata contagiosa dalla mentalità dell’epoca. Nell’Italia fascista, che della virilità aveva fatto un mito, ufficialmente l’omosessualità non esisteva e quindi fare una legge che la punisse avrebbe significato ammettere che le cose stavano diversamente.
E così era poiché, per quanto si negasse l’esistenza dell’omosessualità, gli omosessuali continuavano a vedersi. Si cercherà allora di reprimerli, “curarli”, renderli invisibili ai più, mandandoli al confino con l’accusa di essere moralmente e socialmente pericolosi per la società, nocivi per l’integrità della stirpe e la tutela della razza e simili.
Salvo poi, il 28 giugno del 1943, sempre con l’ossessione per la sua contagiosità, riconsiderare la questione e trasformare in ammonizione “il provvedimento del confino inflitto ai pederasti nella considerazione che per effetto della loro prolungata permanenza nelle sedi di confino, che per lo più sono piccoli comuni rurali, si può diffondere questa forma di pervertimento in ambienti del tutto sani.”
Questo a meno di due settimane dallo sbarco degli anglo-americani in Sicilia. Non era tuttavia il ravvedimento più o meno operoso di un regime ormai in agonia, ma solo una correzione di tiro. Il controllo degli omosessuali veniva per il futuro affidato agli organi di polizia delle città di residenza che “meglio conoscendo le loro abitudini possono con più efficacia controllarne i movimenti ed intervenire tempestivamente”.
Il provvedimento avrà a lungo vigore anche nell’Italia repubblicana.
Adelmo e gli altri
Abbiamo voluto mettere il nome di Adelmo al primo posto in questa mostra perché così si chiamava il più giovane – 19 anni – dei confinati per omosessualità dei quali si è qui cercato di ricostruire la vicenda. Avremmo potuto, in alternativa, metterci quello di Giuseppe, morto probabilmente suicida a 22 anni; morto di omofobia come oggi si direbbe; o di Catullo, confinato per la seconda volta a 61 anni; o di uno qualunque dei protagonisti di queste storie perché tutte hanno qualcosa che le rende uniche.
Si tratta di storie, inevitabilmente parziali, ricostruite sulla scorta delle carte di polizia e degli atti giudiziari nella consapevolezza che la vita delle persone a cui si riferiscono fu più complessa, ricca, e – si spera – almeno un po’ più serena di quanto potrà qui apparire. Il fatto è che traendo tutte le informazioni dagli organi repressivi dello stato fascista nello svolgimento della funzione, appunto l’assegnazione al confino, che più ne caratterizzò il carattere totalitario, si rischia di appiattirsi sulla loro visione delle cose; o, al contrario, di rapportare quei fatti al giudizio che se ne dà oggi, rendendoli, per così dire, troppo contemporanei e mettendo in ombra le peculiarità dei tempi e dei luoghi in cui accaddero.
Dato il carattere foto-documentario di questa mostra, si è qui scelto di esporsi sul versante di una visione che potrà sembrare giudiziaria, lasciando al visitatore il compito di meglio interpretare i materiali presentati.
L’alternativa, in mancanza/attesa di una ricostruzione documentaria a più voci, sarebbe stata quella di lasciare che l’opera del tempo e l’incuria degli uomini cancellassero ogni traccia di ciò che quelle carte raccontano. Ma le vite distrutte degli uomini di cui parlano e quella delle loro famiglie, ci interpellano ancora oggi dall’emarginazione e dall’oblio cui furono condannate rivendicando il diritto ad esistere nella nostra memoria. Ad esistervi secondo i dettami dell’articolo tre della nostra carta costituzionale: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…
É stato quindi per adempiere al leviano dettato del Meditate che questo è stato che vengono qui presentate le brevi biografie di venticinque confinati per omosessualità nella provincia di Matera. Venticinque persone provenienti da ogni parte d’Italia, di condizione sociale prevalentemente disagiata, mediamente trentenni con età variabile fra 19 e 51 anni, condannate per lo più a cinque anni di confino, il massimo della pena. Più di quanto, mediamente, se ne infliggesse ai mafiosi. Con l’aggravante che, a differenza di questi, non disponendo per lo più che del sussidio statale di 6-10 lire giornaliere, per loro sarà difficile trovare un tetto, nutrirsi e, al bisogno, curarsi.
Tutti i casi qui presentati sono di confinati inviati al “soggiorno libero” nei paesi. Nelle colonie i posti scarseggiavano e con la guerra saranno destinati principalmente all’internamento dei prigionieri stranieri.
Nota: la ricerca documentaria e iconografica è stata fatta presso l’Archivio di Stato di Matera, la cui dirigente e il cui personale qui si ringrazia, da Cristoforo Magistro che ha curato anche i testi.
[1] Cit. in L. Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo, Feltrinelli, Milano 2005, p. 131
[2][2] La pena del confino, La Stampa del 27 maggio 1927
Adelmo l’operaio
Adelmo, romano, ha 19 anni quando è fermato la prima volta “per misure di moralità”. Figlio unico con padre esattore e madre casalinga, è molto legato alla famiglia. Ha conseguito il diploma di avviamento professionale, si é sempre comportato bene, da pochi mesi lavora come operaio alla fabbrica d’armi della Breda e il lavoro gli piace. Alla visita di leva è stato dichiarato rivedibile.
Nell’interrogatorio dichiara: “Verso i 14 anni ho incominciato a frequentare uomini sessualmente pervertiti che avevo occasione di avvicinare per lo più nei giardini pubblici”. In particolare si era legato a un certo Claudio R, detto Claudetto.
Altri luoghi da lui frequentati sono il cinema Massimo e il Brancaccio dove s’incontra con uomini sulla trentina. Ma – aggiunge una nota della questura – :
Naturalmente il suo istinto pervertito lo spingeva ovunque è facile contrarre amicizie con uomini: sosta quindi spesso e volentieri nei caffè, nei giardini pubblici, nei mercati rionali, dentro i filobus e, come una vera e propria meretrice, s’intratteneva anche nelle vicinanze di caserme.
Fisicamente delicato e privo di volontà, non è capace di reprimere la sua perversa libidine e quindi non può né sa rinunciare alle avventure di cui va in cerca quotidianamente.
Classificato “socialmente pericoloso per attività omosessuale”, se ne chiede l’invio al confino “non solo allo scopo di un eventuale emendamento ma anche al fine di stroncare la sua attività perniciosa”.
Con ordinanza della prefettura di Roma dell’agosto 1942 è condannato a tre anni e, in un primo momento destinato alla colonia confinaria di Marconia, presso Pisticci; ma, diventata anche questa sovraffollata per l’internamento di prigionieri di guerra, sarà poi trasferito a Bernalda.
Qui lo raggiungeranno per le festività pasquali del 1943 i genitori; a luglio di quello stesso anno, beneficiando della commutazione in ammonimento del residuo di pena, potrà tornare a casa.
A testimonianza della varietà delle caratteristiche personali dei confinati per omosessualità, si riporta qui un’altra breve biografia.
Modesto lo squadrista
Modesto, livornese, aveva 41 anni quando, sorpreso a commettere atti osceni in luogo pubblico con altri due individui e risultato dopo il fermo non nuovo ad episodi del genere, il 2 novembre del 1940, fu confinato a Favignana per tre anni. Un soggiorno non facile per un personaggio simile. A pochi mesi dall’arrivo nella colonia dove la convivenza fra confinati politici e comuni – fra cui molti omosessuali – degenerava spesso in conflitti, sarà infatti coinvolto in una rissa ed arrestato per lesioni e contravvenzione al foglio di soggiorno.
L’episodio doveva essere stato piuttosto grave poiché resterà in carcere per circa un anno. Più probabilmente sarà stato tenuto in cella poiché, mal adattandosi a subire gli insulti e le prepotenze spesso riservate dai confinati politici agli uraniani, come venivano definiti dai più colti, gli omosessuali (L. Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo, cit., pp. 197-208) non era possibile tenerlo nelle camerate affollate da una cinquantina di persone.
Modesto, infatti, a smentita del nome e del cliché della mammoletta associato all’omosessualità, aveva alle spalle una storia, diremmo oggi, violenta; di coraggio e di valore, secondo i canoni dell’epoca. Per molti aspetti incarnava anzi a pieno il modello dell’uomo nuovo che Mussolini aspirava a forgiare.
Livornese, proviene da una famiglia di condotta ineccepibile ed ha una discreta cultura da autodidatta che gli consente di assumere un ruolo dirigenziale nella Società Boracifera di Lardarello. La Grande Guerra, durante la quale combatte come sergente, ne metterà in luce il coraggio facendogli guadagnare una medaglia di bronzo al valor militare. Come molti ex combattenti delusi dai risultati ottenuti dall’Italia con la vittoria, nel 1921 si iscrive al fascio di Livorno, partecipare ad azioni squadristiche e infine alla Marcia su Roma dell’ottobre 1922.
Grazie a questi meriti, l’anno dopo diventa funzionario della Direzione generale del Dopolavoro a Roma e poi della Cassa di Credito per gli impiegati. Sarà proprio il clima della capitale, dove soggiorna per undici anni, a perderlo. A ciò, per lo meno, sembra credere il redattore della sua scheda biografica: A Roma ha contratto il vizio della pederastia frequentando ambienti di degenerati.
Probabilmente è “il vizio” a farlo allontanare dall’impiego. Le cose non cambiano quando, nel 1934, si trasferisce a Livorno e si dà al commercio di lampade come commesso viaggiatore nel: Attualmente è pederasta passivo ed attivo.
Ai primi di luglio del 1942 Modesto, insieme ad altri nove confinati per gli stessi motivi, è allontanato da Favignana e trasferito nel Materano. Destinato a Grottole, vi resterà senza dar luogo a lamentele per circa un anno. Beneficiando della commutazione in ammonimento della restante pena, nel giugno del 1943 tornerà in libertà.