«Condannate a 55 anni i caporali di Montescaglioso»
Il pm chiede 13 anni per i fratelli Dichio e la loro reclutatrice
Quanto accadeva nelle campagne tra Montescaglioso e Bernalda, dove si trova l’azienda agricola dei fratelli Dichio, era venuto alla luce nel 2008 quando una decina di romeni, tra cui un minorenne e quattro donne, avevano trovato il coraggio di denunciare la loro condizione
di LEO AMATO
POTENZA – Condannare a 13 anni di reclusione i due imprenditori di Montescaglioso Agostino e Luciano Dichio e la loro “reclutatrice” Maria Urla, più 8 per i complici Elesabeta Duroiu ed Vasile Enea.
E’ quanto ha chiesto ieri mattina davanti ai giudici della Corte d’assise di Potenza il pm Laura Triassi, nel processo ai presunti “caporali” arrestati a gennaio del 2010 con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù di alcuni braccianti arrivati dalla Romania in provincia di Matera.
Nelle prossime udienza, già fissate per il 24 novembre, il 1 dicembre e il 12 gennaio, la parola passerà alle difese poi i giudici si dovranno ritirare per la sentenza.
Quanto accadeva nelle campagne tra Montescaglioso e Bernalda, dove si trova l’azienda agricola dei fratelli Dichio, era venuto alla luce nel 2008 quando una decina di romeni, tra cui un minorenne e quattro donne, avevano trovato il coraggio di denunciare la loro condizione.
Le loro storie parlano tutte della partenza per Italia con il sogno del Belpaese nella testa, la promessa di un lavoro e una buona sistemazione, e le spese per il viaggio anticipate. A reclutarli erano statedue connazionali, Elisabetta Duroiu e Maria Urla, ma una volta arrivati la realtà si sarebbe dimostrata molto diversa. Già durante il viaggio avrebbero dovuto consegnare i documenti, sarebbero stati costretti a lavorare nei campi per tutta la giornata, sotto la costante minaccia della violenza.
Spesso i tre euro l’ora «pattuiti» come compenso non venivano nemeno pagati perchè – secondo quanto ricostruito dagli investigatori – erano considerati dagli imprenditori agricoli come «saldo» proprio per le spese di viaggio, gli alimenti, le sigarette e l’alloggio. Sempre che un casolare «dalle condizioni igienico-sanitarie disumane» possa definirsi così, e non un vero e proprio lager con tanto di sorveglianti e percosse per chi avesse in mente di fuggire.
In sostanza le pessime condizioni alloggiative e di vita inducevano gli operai rumeni a prestazioni lavorative tipiche delle forme di servitù, in quanto doppie nell’orario a quelle ordinariamente previste dalla legge, non regolarmente pagate, senza alcuna forma di riposo e, soprattutto, senza quei minimi requisiti di sopravvivenza – cibo necessario, pulizia personale, congruo periodo di riposo, tale da permettere un recupero di energie lavorative, aggravate dalle condizioni climatiche di caldo torrido, presente nel periodo oggetto d’indagine. Ma non solo.
I carabinieri del nucleo investigativo di Matera hanno anche accertato che, in alcune occasioni, gli imprenditori agricoli, con altre due persone – sui quali i militari hanno proseguito a lungo le indagini senza riuscire a identificarle – eseguivano spedizioni punitive contro chi cercava di ribellarsi.
A una di queste ha fatto riferimento anche il pm, ieri mattina, sostenendo che durante il dibattimento siano emerse prove evidenti dell’accaduto. Un dibattimento lungo e difficile, anche perché molti dei denuncianti, senza fissa dimora, sono scomparsi dalla circolazione poco dopo gli arresti, forse di ritorno in Romania.
Il pm ha chiesto l’assoluzione del sesto imputato Vasile Ramascan per insufficienza di elementi a suo carico.
l.amato@luedi.it
Mercoledì 21 Ottobre 2015 06:45