Amici di Montenet. Questo capitolo del mio romanzo avevo deciso di non pubblicarlo sul sito. Infine mi sono deciso per rendere un omaggio a Michele Giannotta, il nostro capitano, che tante energie, impegno e sacrifici dedica a questo sito e alla promozione di Montescaglioso. E’ il mio modo per ringraziarlo. Per ovvi motivi questo è l’ultimo stralcio del mio romanzo che pubblico sul sito.
Il 19 Settembre del 1943 a Montescaglioso si svolsero dei fatti tremendi che, tuttavia, vanno inquadrati nel giusto contesto storico. C’era una guerra e c’era una dittatura, e come in tutte le dittature ci sono oppressi e oppressori. Quando un popolo oppresso intravede una speranza trova la forza per ribellarsi. Il popolo non ha un cervello proprio, si muove seguendo un istinto primordiale, il più delle volte violento e vendicativo che gli fa commettere anche le peggiori nefandezze. Credo che sia questa la chiave di lettura da dare ai fatti sconvolgenti che si svolsero in quel lontano 19 settembre di settantuno anni fa.
Nel mio libro, per esigenze narrative, ho collocato la ribellione del popolo montese il giorno dopo i fatti di Matera (21 settembre) e, ricordo ai lettori, che si tratta solo di un romanzo e non di una ricostruzione storica né di una cronaca. Quel capitolo del romanzo è solo ispirato a quegli eventi e come tali devono essere interpretati. Buona lettura.
Dal Capitolo 26: L’amaro sapore della libertà.
Il giorno dopo in paese si sparse la voce dei combattimenti che si erano svolti a Matera e che i tedeschi avevano abbandonato la città. Don Francesco Spataro si rese conto che la situazione era del tutto compromessa e iniziò a organizzare la sua fuga con la famiglia. La moglie e i figli partirono la mattina stessa con una macchina della Milizia, lui li avrebbe seguiti appena avesse finito con la distruzione dei documenti e il completamento di un’operazione che aveva organizzato in tutta segretezza, ispirato da quanto avevano fatto i tedeschi a Matera. Aveva fatto minare il palazzo della Milizia per cancellare ogni traccia delle atrocità che vi aveva compiuto. La popolazione era indecisa sul da farsi perché tedeschi e fascisti presidiavano ancora i punti nevralgici del paese. Nella caserma dei carabinieri il maresciallo Tobini armò i suoi uomini e fece convocare in caserma i soldati che erano rientrati dalla guerra e un gruppo di volontari. Disse loro che era arrivato il momento di liberarsi delle Camicie Nere e degli odiosi nazisti che occupavano il paese. Radunò un piccolo esercito di uomini e cominciò a smistarli nei pressi delle aree presidiate dai nazifascisti. Aspettavano un suo ordine per attaccare. Verso mezzogiorno il Maresciallo, a capo di un gruppo che comprendeva i suoi carabinieri e alcuni soldati, attaccò la postazione tedesca davanti al palazzo della Milizia. All’udire gli spari, anche gli altri gruppi attaccarono. La battaglia davanti al palazzo della Milizia fu particolarmente feroce. I tedeschi disponevano di una mitragliatrice fissa ma erano pochi uomini e dopo un violento combattimento furono annientati. Sul terreno restarono quattro tedeschi e un carabiniere. Eliminata la postazione tedesca, il Maresciallo spostò i suoi uomini a dare manforte agli altri gruppi che stavano ancora combattendo. Nel palazzo c’erano rimasti don Francesco e due suoi uomini che si erano guardati bene dal partecipare al combattimento ed erano pronti per la fuga attraverso una uscita posteriore del palazzo nei pressi di Porta S. Angelo. Sarebbero scappati per la stradina delle cantine con un’auto parcheggiata vicino l’uscita. Appena terminati i combattimenti, nella piazza antistante il palazzo si radunò un gruppo di numerosi cittadini armati di asce, falci e bastoni. Decisero di dare l’assalto al palazzo. Luigino, che durante i combattimenti era rimasto nello studio, si unì al gruppo e recuperò un’ascia da un contadino. Tutti speravano che il Podestà non fosse ancora fuggito. In realtà don Francesco stava per riuscirci. Era nei locali delle cantine del palazzo. Le cantine davano sulla stradina che costeggiava le antiche mura del paese e aspettava che i rivoltosi fossero nel palazzo per dare fuoco alla miccia e farlo saltare insieme ai suoi occupanti. Il gruppo entrò nel palazzo e subito si diresse ai piani superiori. Luigino, entrando nel palazzo, vide una Camicia Nera che stava chiudendo alle sue spalle la porta dei locali delle cantine. Lo seguì e vide che stava uscendo sulla stradina, quindi si fermò ad aspettare il Podestà che stava per accendere la miccia.
«Podestà, sbrigatevi che stanno arrivando».
«Solo un minuto che qui facciamo tombola, li faccio saltare tutti in aria».
Alla risposta del Podestà Luigino lo individuò, era dietro alcune botti vuote appoggiate su un mezzo muro in pietra. Luigino lo raggiunse e prima che questi riuscisse a dar fuoco alla miccia gli sferrò un colpo di ascia sulla spalla destra. Don Francesco cadde in ginocchio con il fiammifero ancora acceso in mano. Guardò Luigino dal basso con un’espressione di grande sorpresa e lo vide con in mano l’ascia rossa del suo sangue. Lesse nel suo sguardo che non aveva intenzione di ucciderlo; dopo la sorpresa sorrise alla debolezza del suo nemico e ordinò al suo tirapiedi di sparargli. L’uomo sparò con la pistola nella direzione di Luigino ma lo mancò colpendo la botte vuota alle sue spalle.
«Spara, uccidilo, questo bastardo figlio di puttana».
L’uomo sparò nel vuoto senza neanche guardare e scappò temendo l’arrivo degli altri. La macchina partì lasciando il Podestà in ginocchio davanti a Luigino.
«Tu non mi ammazzerai, non ne sei capace. Io invece se ne avessi avuto l’occasione avrei sterminato la tua merdosa famiglia, vi avrei uccisi tutti. Anche la tua dolce Maristella. Non ti ha raccontato di quando stavo per farmela? Strillava e si dimenava come una gallina impaurita. Ancora un minuto e le avrei strappato la verginità. Io l’avrei fatto. Io, non tu».
L’uomo era ormai in preda al delirio. Rideva sguaiatamente senza averne motivo. Luigino sentì una forza aliena, esterna ai suoi sensi e alla sua volontà, sollevargli il braccio e la mano che impugnava l’arma, vide lo sguardo, a quel punto, terrorizzato dell’uomo e l’ascia che gli lacerava l’altra spalla. Avvertì la sgradevole sensazione di nervi e ossa che cedevano all’urto del ferro affilato e ne fu inorridito. Don Francesco urlò come una belva ferita nella carne e nell’anima. Il monarca che fino a quel momento aveva potuto sulla vita e sulla morte dei suoi sudditi adesso sentiva nella sua carne gli artigli feroci e spietati dei cafoni ora vittoriosi. Non era stato colpito da un proiettile o dal nobile metallo di una spada ma da una volgare ascia, un umile attrezzo contadino. Doleva la carne ma ancor più doleva lo spirito. Il viso si contorse in una smorfia inumana e si sedette sui talloni inginocchiato con la testa china. Guardò le spalle ferite e vide la carne viva sanguinare. Il delirio aveva lasciato il posto al terrore. Non era più così sicuro della debolezza del suo avversario. A fatica lo implorò di risparmiarlo.
«Non ti ammazzo» fece Luigino «mi faresti più schifo da morto che da vivo».
Luigino si girò e stava per andare quando nel locale entrò un primo gruppo dei rivoltosi. Temette che avrebbero straziato l’uomo godendo della sua agonia e lui non avrebbe potuto far nulla per fermarli. Fu preso da un moto di pietà, si girò nuovamente e colpì con violenza la sua testa. L’uomo stramazzò al suolo esanime. Quando gli uomini arrivarono dietro le botti videro il cadavere di don Francesco riverso per terra. Luigino lo fissava con l’ascia insanguinata ancora in mano. Gli uomini videro la miccia, la seguirono e scoprirono dietro un sacco di iuta un enorme quantitativo di esplosivo.
«Voleva farci saltare per aria» disse uno di loro con orrore.
In silenzio gli uomini uscirono dal locale. Luigino non si era mosso dalla sua posizione, restò a fissare l’uomo riverso sulla terra scura della cantina. Gli sembrava di guardare uno di quei film al cinematografo dove la morte è lontana e non fa male, ma le viscere gli si annodavano in un groviglio che avvolgeva e stritolava stomaco, fegato e polmoni. Ovunque intorno al corpo dell’uomo sul pavimento c’erano chiazze di sangue. Dal collo della camicia del podestà si intravedeva un piccolo particolare di un tatuaggio che l’uomo si era fatto incidere sotto la nuca. Spostò il collo della camicia e vide l’immagine terrificante di un serpente, un cobra nero con il cappuccio aperto in posizione di attacco. Un veterinario conosce bene la tremenda forza letale di un cobra che attacca. Prima del veleno uccide il terrore che incute. Don Francesco lo sapeva, per questo lo aveva scelto a rappresentare il suo mandato di Podestà.
Gli uomini si erano fermati fuori dalla cantina. Parlavano fra di loro.
«Oggi ci sarebbe stata una strage qui se il dottor Luigino non lo avesse fermato».
In quell’istante arrivò anche il maresciallo Tobini con i suoi uomini.
«Di quale strage state parlando?» chiese agli uomini «e il Podestà, lo avete preso?».
Uno degli uomini fece cenno con la testa in direzione della cantina. Il Maresciallo entrò e vide il corpo di don Francesco in una pozza di sangue e Luigino con l’ascia. Notò subito la miccia appesa dal muretto, la seguì e scoprì anche lui l’esplosivo. Tornò verso Luigino.
«È stata un’azione di guerra» gli disse «e poi qui dicono che voi siete un eroe, li avete salvati dall’esplosione».
Luigino si girò di scatto verso il muro e diede di stomaco. Gli sembrò che l’enorme groviglio che sentiva nell’addome gli si srotolasse su per la gola e lo stesse vomitando insieme alla sua stessa anima e agli ultimi residui di umanità che ancora conteneva. Il pallore mortale sul volto di Luigino fece temere al Maresciallo che questi non ce la facesse a contenere l’orrore del momento. L’esperto carabiniere gli mise una mano sulla spalla.
«Passerà, dottore, passerà. Venite, qui è tutto finito». Il Maresciallo chiese il silenzio della folla: «Gli americani stanno arrivando, sono a Metaponto e tra qualche ora saranno qui. Gli abbiamo fatto trovare il lavoro già svolto, queste erano faccende che avremmo dovuto sbrigare da soli. Ora non ci sarà bisogno che ci sparino addosso con l’artiglieria. Quando arrivano andrò loro incontro per metterli al corrente della situazione».
La folla urlò “Urrà per il Maresciallo, Urrà per il dottor Luigino”.
Luigino non partecipò ai festeggiamenti neanche quando in paese arrivarono gli americani e gli inglesi. Il maresciallo Tobini informò gli Alleati che anche Matera era stata liberata dai suoi abitanti e che i tedeschi erano scappati verso nord.
Luigino era a casa, raccontò alla giovane moglie gli avvenimenti a cui aveva partecipato in quelle due terribili giornate e non le chiese niente di quanto gli aveva rivelato don Francesco. Pensò che certe ferite era meglio non riaprirle. Forse un giorno Maristella gli avrebbe raccontato di un tentativo di stupro subìto per liberarsene definitivamente. Lui l’avrebbe ascoltata in silenzio stringendole le mani.