domenica 22 Dicembre 2024

Liberazione

Il tempo trascorso e, ancora di più, la mediocrità del momento storico-politico che stiamo attraversando hanno reso le celebrazioni commemorative del 25 aprile un rito sempre meno sentito dalle giovani generazioni.

É naturale che l’importanza della Liberazione non possa essere compresa da chi non sa da che cosa gli italiani si liberarono e furono liberati nel 1945.

Non starò qui a ricordare i grandi e drammatici eventi che portarono a quell’esito, ma mi sembra utile far conoscere come si viveva nel nostro paese durante il fascismo. Lo farò richiamando due piccoli e ordinari episodi di vita quotidiana che danno, a mio parere, un’idea della meschinità dei tempi.

Del primo è, suo malgrado, protagonista un maestro che, in dissidio personale con il segretario del fascio, non partecipa alle offerte per i combattenti. Per inciso va ricordato che il clima era avvelenato dalle accuse che chi era in guerra e  i loro parenti facevano a chi era rimasto a casa a fare la guerra in salotto.

Lafratta1 Lafratta2

Il secondo episodio riguarda una donna che aveva comprato mezzo kilo di carne per fare il consolo a una parente e se lo vede sequestrare. Anche a tale riguardo v’è da notare che la guerra aveva portato alla rarefazione e al rincaro dei beni di prima necessità, all’impoverimento dei più,  all’evasione degli ammassi, al contrabbando e alla formazione di alcune fortune.

Bove-Quercia

Niente di che come si vedrà, fatterelli; a me pare che sia proprio la loro ordinarietà a renderli gravi.  


Commenti da Facebook

4 Commenti

  1. vince_ditaranto

    Ringrazio Cristoforo per aver affrontato l’argomento. Non è mai banale richiamare l’attenzione sulle giornate storiche del nostro popolo, è sempre un buon esercizio farlo. Soprattutto nel periodo storico che stiamo vivendo.

    Sono d’accordo con Cristoforo, pochissime manifestazioni o eventi che abbiano potuto far vibrare ancora nelle menti di noi tutti lo spirito del 25 Aprile. Solo mere e banali (ipocrite?) commemorazioni.

    Ma, dopo aver compreso gli eventi (per molti sconosciuti), la domanda che dobbiamo farci è la seguente….quale è l’insegnamaneto, lo spirito, l’ispirazione che bisogna trarre da questa emblematica ricorrenza? 

    Cristoforo giustamente ricorda la situazione storica del cancro fascista in cui l’Italia era caduta e trovo interessante proprio la “ordinarietà” delle gravi situazioni da lui citate. 

    Ma io vorrei ampliare il concetto di Liberazione e adattarlo alla situazione odierna.

    Cristoforo dice che il momento storico politico è mediocre, certo lo è se guardiamo alla politica ufficiale e a quella che vediamo a Porta a Porta. Credo invece che ci siano dei fermenti Politici sottotraccia davvero importanti e senza precedenti. I movimenti che si sono sviluppati negli ultimi anni, lasciando stare M5S, stanno portando idee nuove e aria di rivoluzione culturale, oramai non più procrastinabile.

    Ecco perchè personalmente credo che la Liberazione dal giogo del fascismo, quindi la Liberazione per eccellenza, debba ispirare tutti gli uomini liberi ad opporsi ai nuovi e più sofisticati “fascismi” che tengono al cappio la nostra società.

    Cristoforo, tu parli giustamente dei piccoli/grandi episodi quotidiani che danno la cifra di cosa vuol dire un regime fascista. Ma ti chiedo se non ravvisi degli scenari tristemente simili oggigiorno, anche nella nostra Basilicata.

    Cosa ne pensi? 

    Non voglio fare un elenco di luoghi comuni per poi essere tacciato di qualunquismo, ma se per il posto di lavoro o per una procedura burocratica o per un concorso bisogna (tranne rarissimi casi) rivolgersi al Feudatario politicante di turno, spiegami cosa c’è di tanto diverso dal fascismo? Intendo ovviamente alludere alle questioni “ordinarie” che limitano DI FATTO la nostra libertà.  

    A tal proposito un amico pigro 🙂 mi ha inviato ieri il link a questo articolo dove si parla del nostro popolo lucano, più che mai bisognoso della nuova Liberazione.

     

    @vince_ditaranto

  2. drago

    Vincè, rispondo in ritardo (in modo pigro🙂 ) ma con piacere al tuo intervento. Lo faccio commentando l’articolo di Capezzuto.

    Si tratta di un articolo molto interessante perché  tratta molti temi della nostra regione e perché è volutamente provocatorio. Vuole cioè creare un dibattito cercando di far riflettere non solo i politici, ma anche le persone comuni.

    Balza subito agli occhi che chi scrive è informato  sui meccanismi “oleati” del potere lucano vecchi almeno di cinquanta anni.

    Però voglio soffermarmi su un altro aspetto dell’articolo, muovendo una critica al giornalista. Una delle possibili letture dell’articolo ci porta a riflettere sul concetto di isolamento della nostra regione. L’isolamento è diventato nel corso del tempo non solo un fatto fisico, si è trasformato in un preconcetto che ha interessato persino Capezzuto, che pure mostra amore nei confronti dei lucani.

    Quando parla della mafia, ad esempio, il giornalista  afferma che in Campania c’è la Camorra, in Sicilia la mafia, in basilicata la politica.

    E’ una frase che è chiara nel suo concetto finale, ma che involontariamente  nasconde altro.

    Mostra  una differenza  all’apparenza positiva, ma che rivela un pregiudizio. La Basilicata è vista come un sud del Sud; si crede che qui la Mafia non attecchisce e quando lo fa ha un volto più umano, quello della politica.

    La Basilicata costituisce secondo questo concetto portato all’estremo  un confine naturale al potere  del crimine organizzato.

    Anche la mafia si è fermata a Eboli probabilmente.

    Le storia ci dice che la basilicata non è stata immune dal crimine organizzato.

    La visione su una presunta diversità dei lucani  ha  volontariamente favorito  la classe dirigente locale che ci governa, ha mantenuto lontano lo Stato centrale  ha frenato,infine,  il parlarsi di due mondi che tanti decenni fa erano lontanissimi, i lucani e lo stato centrale.

    La vera scommessa sarebbe quella di rompere l’isolamento e di considerare i lucani come i pugliesi o i campani, non perché non esistono differenze, ma perché siamo a pochi chilometri e i problemi e le risorse spesso sono simili

    Mario

  3. Cristoforo Magistro

    Non voglio sottrarmi alle domande garbatamente poste da Vincenzo con il quale mi scuso della tardiva  risposta.

    Lui dice giustamente : “vorrei ampliare il concetto di Liberazione e adattarlo alla situazione odierna”.  A qualcosa del genere  pensava anche Benedetto Croce quando scriveva che tutta la storia è storia contemporanea, vale a dire che il giudizio dato su qualunque fatto del passato risente inevitabilmente della sensibilità e dell’ideologia dell’epoca in cui viene formulato. Sulla base di queste premesse è del tutto evidente che il valore attuale della lotta di Liberazione è fortemente “deprezzato” rispetto, ad esempio, agli anni settanta poichè in quegli anni ci si illudeva di poter realizzare e attualizzare alcuni dei valori propugnati da quella lotta.

    Vincenzo chiede anche di spiegargli cosa c’è di diverso fra l’epoca attuale e il fascismo. Potrei rispondere che di diverso c’è la libertà di voto e di espressione, ma temo che questa sarà considerata una risposta evasiva poichè è impressione diffusa nel nostro paese, specie negli ultimi anni, che le indicazioni che bene o male arrivano dall’elettorato siano travisate e rese ininfluenti da complessi giochi istituzionali. Da questo punto di vista la sensazione di non contare niente provata da molti cittadini elettori appare fondata.

    Se si pensa invece a quanto, proprio facendosi forte dei voti ottenuti, un personaggio come Berlusconi ha potuto fare sentendosi sciolto dall’osservanza di qualunque legge, la stessa impressione appare sbagliata. O meglio: chi vota a sinistra sente di non contare niente, chi vota a destra si sente realizzato dal delirio di onnipotenza del proprio eletto.

    Per quanto riguarda la nostra regione, pur condividendo in linea di massima I’insoddisfazione di molti, devo dire che so poco o nulla delle dinamiche profonde che l’hanno governata negli ultimi trenta anni. Credo che sia stato un pericoloso terreno di scontro di quelli che si usano definire poteri forti e che gli strumenti del vecchio meridionalismo siano ormai inadeguati a comprenderle.

    Ho anche l’impressione che i movimenti, i fermenti, le aggregazioni alternative alle forze politiche attualmente al potere siano piuttosto fumose e velleitarie e pensino di fare la rivoluzione – o qualcosa del genere- con il permesso della questura.

    Di certo è un peccato che non abbiano spazio nel dibattito attuale, ma -nuovamente – è inutile illudersi che qualcuno graziosamente glielo conceda.

    Mi permetto di sottoporre a chi fosse interessato a considerare le vicende del nostro paese nella loro complessità d’insieme alcuni passi del saggio “Elogio della radicalità” (Laterza, 2012)  dello storico Piero Bevilacqua. Non è una barzelletta quanto a divertimento, ma si può leggere.

     

         I – L’estremismo dei moderati 

    Habent sua fata verba. Anche le parole hanno il loro destino nel confuso universo del dibattito pubblico. Il termine moderato, ad esempio, è di quelli cui sembra arridere un imperituro favore, continuamente rinnovato, anche quando esso appare sostanzialmente falsificato dalla realtà dei fatti. 

    Anche quando esso serve a coprire e autorizzare realtà e dinamiche sociali che hanno ben poco di regolato, mite, corretto, misurato. Oggi i moderati, ad esempio, pur entro una variegata platea di atteggiamenti e culture , sono pienamente identificabili con i difensori dell’ordine esistente. Questa è la loro specchiata carta d’identità, la definizione che tutti li comprende. Certo, sono sempre agitati dal sacro furore di renderlo migliore, quest’ordine, attraverso la vecchia e consunta favola delle riforme da fare, e tuttavia pervicacemente impegnati a difenderne l’assetto, le gerarchie dominanti, la narrazione ideologica di sostegno. Dunque, essi sono diventati, di fatto, e in genere senza effettiva consapevolezza storica del loro nuovo ruolo, il contrario di ciò che immaginano di essere, vale a dire degli estremisti. E il paradosso risiede in una ragione elementare: il loro atteggiamento e la loro collocazione politica non solo non contrasta, ma anzi favorisce il dispiegarsi di fenomeni economici, sociali e ambientali che sono obiettivamente estremi. Il conservatorismo sostanziale della loro posizione e del loro agire, che nulla cambia nella condizione dei deboli e dei perdenti, si presenta con un volto sì mite, ma nei confronti delle potenze dominanti dell’epoca e delle loro sregolate scorrerie. 

    Com’ è possibile ? Le metamorfosi sociali che la storia ci consegna vanno sempre tenuti nel conto. Il tempo, «assidua lima» , come diceva un dimenticato poeta, Giacomo Zanella, non lascia mai niente uguale a se stesso. Quante cose, nel corso storico, si sono rovesciate nel loro contrario! E infatti, da storico, debbo ammettere e ricordare che non sempre il moderatismo ha incarnato una politica subalterna e parassitaria come oggi accade, piegata ad accompagnare e blandire la smodatezza delle forze dominanti. I moderati che hanno realizzato l’Unità d’Italia, ad esempio, e che hanno sconfitto una ipotesi democratica e socialmente avanzata di unificazione, sono stati tuttavia uomini di ardimento e di sagacia politica, e hanno condotto a termine un gigantesco progetto. Hanno unificato, almeno istituzionalmente, gli italiani, fondando uno stato-nazione. Per avvicinarci al nostro tempo, e per passare dall’epica ottocentesca alla prosa del Novecento, ricordo che La Democrazia Cristiana, ad esempio, tra gli anni ’50 e ’70, ha realizzato una politica moderata, che ha assorbito e neutralizzato vasti settori reazionari ed eversivi, ancora così presenti e attivi nella società italiana, imponendo talora forme contenute ma efficaci di modernizzazione capitalistica. Dalla Riforma agraria alla Cassa per il Mezzogiorno, dalla scuola media unica al piano INA Casa. 

    Perché il moderatismo politico oggi non è una virtù, ma, al contrario, la conclamata perversione di una politica riformatrice? A renderla tale sono fenomeni vari e complessi riassumibili , tuttavia, in buona parte, nel vasto ma uniforme processo della trasformazione subita dai partiti politici negli ultimi decenni. Tutti, infatti – salvo quelli definiti radicali – hanno inseguito e inseguono oggi il “centro”, come un tempo i cavalieri medievali vagavano per il mondo in cerca del sacro Graal. Essi puntano, cioé, a disporsi in una posizione intermedia fra le classi sociali allo scopo di rappresentare gli interessi moderati che si immaginano dominanti nella società. E’ una scelta che mira dritta al successo elettorale e che non ha nessuna ambizione di trasformazione della società, di modifica della ripartizione della ricchezza, di alterazione degli assetti di potere. I “moderati” assumono le gerarchie esistenti, i rapporti di forza dati non come un terreno di conflitto, ma come un principio di realtà da rispettare. Si parte dallo status quo e dal potere su cui si regge, per rappresentarlo con messaggi politici e per svolgere un ‘opera di mediazione e di raccordo tra le più varie figure sociali, pensate come elettori, e non certo quali articolazioni di una gerarchia di classi. Gli esponenti del moderatismo sono, dunque, gli agenti di un nuovo «mercato della politica», impegnati a vendere messaggi in cambio di consenso per la propria riproduzione di ceto. Ma essi lasciano immutati gli squilibri drammatici che non solo sconquassano le nostre società, ma le vanno inclinando velocemente verso scenari sempre più ingovernabili. Sotto il profilo culturale, il moderatismo oggi rappresenta la perpetuazione di un conformismo ideologico che è fra i più vasti e totalitari che l’umanità abbia mai conosciuto. Esso si fonda interamente, malgrado i vari scongiuri di rito, sul “senso comune” neoliberista: un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste, come vedremo, che siano state pensate e diffuse nell’età contemporanea. 

    Che cosa c’è , infatti, di moderato nell’assetto e nella ratio economica del capitalismo del nostro tempo, nelle dinamiche sociali che esso promuove, nell’ideologia che lo ispira ed alimenta ? E’ forse moderata la pretesa delle imprese di avere prestazioni sempre più estreme dai lavoratori, sia in termini di intensità che di durata della giornata lavorativa? E’ mite e sobria la spinta a un consumismo sfrenato che divora quotidianamente interi continenti di risorse, e che sta portando dissesti tendenzialmente irreversibili ai complessi equilibri della Terra? E tutto questo mentre ancora un miliardo di persone soffre la fame, milioni di bambini muoiono ogni anno per assenza di cibo, acqua potabile, medicine d’uso comune? E’ sobria e discreta la pretesa del capitale finanziario di avere ritorni a due cifre, e in tempi sempre più brevi, dei propri investimenti, a prescindere dagli andamenti dell’economia reale? Sono sobrie e parsimoniose le gigantesche speculazioni finanziarie che attraversano quotidianamente il globo, mobilitano immense masse di denaro, sconvolgono economie, manomettono le sovranità degli Stati ? In realtà, mai come oggi il mondo era apparso così drammaticamente percorso da eventi estremi. Non casualmente un sociologo italiano, Tonino Perna, ha potuto dedicare un suo libro, Eventi estremi, al carattere violento e alle «fluttuazioni giganti» che oggi attraversano – e sembrano far ricadere in un medesima logica di funzionamento – tanto il clima che il mondo turbolento della finanza. 
    Eppure i politici moderati non hanno altra divinità da adorare che la crescita economica, il cosiddetto sviluppo. Promuovono, infatti, il sostegno incondizionato all’accumulazione del capitale, immaginata come il motore da cui discendono poi a cascata, per virtù del mercato, tutti i vantaggi distribuibili tra i vari ceti sociali. Ma è ancora così? Ed è andata così nell’epoca gloriosa del così detto “libero mercato”, il trentennio neoliberale ? Basta un rapido sguardo storico per accorgersene. Forse che non è cresciuta l’economia USA negli ultimi 30 anni? Eppure gli americani hanno visto aumentare l’intensità e la durata della loro giornata di lavoro. In tale ambito sono ritornati indietro di quasi un secolo. Mentre l’insieme delle relazioni umane tendono, per dirla con Zygmunt Bauman, a liquefarsi. E la middle class (la classe media e i ceti popolari) da sempre adorata dai moderati, per il suo essere collocata al centro, che fine ha fatto? Negli USA è stata spazzata via – come ha scritto Lou Dobbs, un giornalista americano, nel suo War on the middle class – da una vera e propria guerra di classe che l’ha ridotta in miseria. Non è cresciuta l’economia europea nello stesso periodo? Eppure la disoccupazione, già prima della crisi, è di fatto aumentata, solo in parte contenuta o camuffata dal dilagare del lavoro a tempo determinato. Una intera generazione di giovani, in diversa misura da Paese a Paese, è stata gettata nel limbo dell’ incertezza e della precarietà. E i lavoratori occupati? In Italia, in molti settori, per reggere ai ritmi della fatica, alle lunghe giornate in fabbrica o in cantiere, i lavoratori fanno ricorso alla cocaina. In Francia, come in Giappone, si allunga la catena dei suicidi per l’insostenibilità dei ritmi di prestazione nelle aziende. Sono nati nuovi poveri, la disuguaglianza ha raggiunto picchi da antico regime, è dilagata l’infelicità sociale. Come hanno mostrato in una grande inchiesta, La misura dell’anima, Richard Wilkinson e Kate Picket , «la disuguaglianza è violenza “strutturale”», essa lacera il tessuto vivo della società, è all’origine di un moltitudine di disagi e patologie, avvelena la qualità del vivere. E che cosa ha di moderato una crescita economica che ha reso sempre meno vivibili le nostre città, che è venuta distruggendo le risorse naturali a un ritmo insostenibile, che sta modificando il clima, che minaccia la possibilità di vita di intere regioni e popoli della terra già nei prossimi decenni? 

    Le cose non cambiano, anzi si mostrano in una esemplarità da caso-studio, se mettiamo il naso nel laboratorio italiano. Se avviciniamo lo sguardo allo scenario politico nazionale, l’abuso dell’aura virtuosa di cui il termine moderato si ammanta appare nella sua luce più grottesca. Negli ultimi anni il nostro Paese è diventato, sotto questo profilo, teatro di un imbarazzante paradosso. Pensiamo al PDL , il maggiore partito del governo appena caduto, che ha sempre preteso di essere una formazione politica moderata. Ora, non solo esso è stato saldamente legato, nell’esecutivo, e ne ha condiviso le scelte, a un partito estremista, xenofobo e persecutorio, come la Lega. Una formazione che lucra consenso elettorale sulla paura e l’odio per il diverso e lo straniero, e si presenta con un volto così moderato da teorizzare la distruzione dell’unità nazionale. Ma è all’interno dello stesso PDL che il moderatismo appare come l’aglio in casa del vampiro. Esiste oggi, sulla scena pubblica italiana e potremmo dire mondiale, un personaggio più smodato, intemperante, eccessivo, disordinato di Berlusconi? Ma la sregolatezza, che solo sino a un certo punto pertiene alla sfera privata – anche per i modi in cui essa si è manifestata e si organizzata – non si limita appunto all’ambito delle prestazioni sessuali. Avremmo pure potuto sorridere della satiriasi di un vecchio, un vecchio potente e soprattutto dotato di uno straordinario potere d’acquisto. Certo, se questo non avesse anche comportato – come di fatto è avvenuto – una così spregevole pratica di mortificazione e mercificazione delle donne. Benché il nostro sorriso, comprensivo e “cattolico,” non avrebbe in questo caso risparmiato all’Italia gli effetti gravi di deturpamento della propria immagine a livello mondiale, presso l’opinione pubblica di Paesi nei quali la dignità del comportamento personale costituisce un tratto indispensabile dell’agire politico. 

    Ma il fatto è che la più dirompente smodatezza Berlusconi l’ha manifestata sul piano politico, subordinando, come mai era accaduto nella storia dell’Italia unita, il governo del Paese e parte del Parlamento ai suoi interessi personalissimi, mettendo in discussione la divisione dei poteri e l’indipendenza della magistratura, occupando i mezzi di comunicazione di massa, facendo violenza alla Costituzione, stracciando le procedure e le regole della vita democratica, trafficando segretamente con affaristi e criminali. E dunque ponendosi come modello ed esempio, per così dire, per la parte più sregolata ed abietta che opera nei bassifondi della vita italiana, quella opaca galassia che abusa del nostro territorio, evade le tasse, corrompe i magistrati, lucra affari col pubblico denaro. In questo nuovo estremismo immorale, diffuso nello spirito del Paese dal potere di governo, perfino quello che avrebbe dovuto essere il supremo custode dei valori universali della moderazione, la Chiesa di Roma, si è trasformato in una forza disposta sulla trincea dell’estremismo. Non solo essa ha di fatto e troppo a lungo tollerato la sregolatezza moralmente e civilmente dirompente di un capo di governo, in ragione della contropartita per nulla evangelica dei vantaggi economici che ha ricevuto per il suo silenzio. Ma ha praticato e pratica pervicacemente una forma di estremismo che ha la pretesa incontenibile di entrare nell’intimo delle nostre vite. Com’è noto, la Chiesa di Roma, questo papato, vuole toglierci il diritto alla morte. Noi, che come tutti i viventi sparsi sulla Terra, non abbiamo potuto scegliere la nostra nascita, non abbiamo potuto decidere se fare il nostro ingresso nel mondo, dovremmo oggi essere privati del supremo diritto di scelta che la nostra vita ci dona: decidere il modo e il quando del nostro morire. 

    A questo punto, dunque, è d’obbligo porsi la domanda: perché il termine moderato gode di tanto pubblico favore? Come sanno i linguisti, le parole, anche se soggette alla mutazione del tempo, posseggono una stoffa storica di lunga durata. Esse serbano a lungo la loro originaria semantica e dunque spesso anche l’aura nobile delle loro origini. E il termine moderato, infatti, incassa abusivamente i meriti indubbi della virtù morale che, in origine, esso definisce. La moderazione – che proviene dal latino modus, misura, medietà – è una encomiabile proprietà dell’uomo saggio e mite, che rifugge dagli eccessi. Un ideale di umanità che la civiltà romana mise in cima alla sua gerarchia di valori. E che nel corso del tempo è stata tanto più apprezzato quanto più lontano e contrapposto a ciò che è estremo, violento, senza misura. Possiamo dire radicale? 
    Ma oggi, siamo ancora a questo ? O la moderazione dobbiamo cercarla esattamente nel suo opposto? Non dobbiamo, come fece Erasmo da Rotterdam nel XVI secolo, nell’ Elogio della follia, cercare la saggezza nell ‘insania ? « Se i mortali – fa dire Erasmo alla follia – troncassero nettamente ogni rapporto con la saggezza e passassero la loro intera esistenza in mia compagnia, non sarebbero mai vecchi, e anzi godrebbero felici di una eterna giovinezza .>> Occorre capovolgere il significato delle parole. Un ideale di generale “moderazione”, per quegli imprevedibili arcana che governano i nostri destini, per quei capovolgimenti che fanno talora irruzione nel corso storico, è diventato, nel giro di qualche decennio, la prospettiva di un progetto rivoluzionario. Può sembrare forzato e paradossale, ma è esattamente così. Qual’è infatti oggi la finalità suprema dei disegni più radicalmente eversivi dell’attuale assetto disordinato del mondo? A che cosa ambiscono i molteplici soggetti e movimenti che mirano a sovvertire l’ordine capitalistico? E’ la prospettiva di una società sobria, che ponga fine al consumismo smisurato, alla bulimia distruttiva di territorio e risorse, all’ affanno della crescita infinita, alla mortificazione dell’umana operosità ridotta a merce, alla competizione senza quartiere, alla dissipazione nel lavoro e nel consumo del nostro tempo di vita. Che altro chiedono le moltitudini di donne e uomini che oggi criticano dalle fondamenta il capitalismo violento del nostro tempo? A che cosa aspirano i sostenitori della decrescita, del buen vivir, di Slow Food, del Take back yor time e del Dawnshifting americani, dei movimenti che rivendicano i beni comuni? Essi chiedono l’avvento di una società conviviale, come la profetizzava Ivan Illich, una società in cui i rapporti umani siano improntati alla mitezza, virtù di cui oltre 20 anni fa Noberto Bobbio tesseva un appassionato l’elogio. Il pensiero radicale, dunque, considerato estremo e violento dalla vulgata storica, è in lotta per aprire la via a un diverso rapporto degli uomini con la natura, un rapporto di cura e protezione che metta fine all’età del saccheggio, a nuove relazioni solidali fra gli uomini, a una più equa ripartizione del benessere, a forme egalitarie di partecipazione al governo della cosa pubblica, che siano regolate da un diritto mite, come quello auspicato e descritto da Gustavo Zagrebelsky in un suo fortunato saggio del 1992. 

     

    Ben diversa fortuna ha conosciuto il termine moderno radicale. E da quanto si è detto sin qui si comprende agevolmente il perché. Sin nel linguaggio corrente esso è sinonimo di estremista, supremo insulto politico, oltre che intellettuale, in un epoca nella quale sono rimasti sotto il cielo solo integerrimi moderati, osservanti buone pratiche di indifferenza, che non turbano l’ordine iniquo del mondo. Nel nostro Paese, per la verità, il termine ha anche una sua specifica storia politica, com’è largamente noto. Il Partito radicale – già presente nel Parlamento italiano nell’Italia liberale – ha conosciuto una discreta fortuna tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Allorché immise nella dibattito pubblico dominante, quello, per intenderci, sovrastato dai grandi partiti di massa della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, il tema eversivo dei diritti civili, delle libertà individuali, della sessualità, del diritto di famiglia. Incursione fortunata, coronata da successo, come il referendum sul divorzio e sull’aborto: eventi che hanno contribuito a cambiare in profondità vecchi e talora arcaici rapporti personali e familiari, forme insostenibili di subordinazione delle persone al potere, sia ecclesiastico che laico. Dunque, una pagina importante della storia civile dell’Italia contemporanea, che tuttavia ha lasciato al termine radicale non solo il suo originario alone di eterodossia, ma anche quello di formazione minoritaria. Una condizione da cui quel partito non è più uscito, malgrado la scelta poco nobile degli ultimi anni di accostarsi al centro-destra di Berlusconi. E nonostante l’apertura di credito di molti suoi dirigenti – persino di una donna di valore come Emma Bonino – al dottrinarismo neoliberista che ha trionfato negli ultimi decenni e che oggi è in frantumi. 

    L’alone di marginalità e minorità politica si è poi esteso e rafforzato negli ultimi anni con le vicende che hanno investito i partiti a sinistra delle varie formazioni eredi del Partito comunista italiano. Com’è noto, Rifondazione comunista è stata tagliata in due da una scissione che l’ha portata fuori dal Parlamento , condizione che ha condiviso anche con la formazione politica dei Verdi. Qualcuno si rammenta del drammatico tracollo di consenso della formazione Arcobaleno alle elezioni del 14 aprile 2008? Si capisce, dunque, come negli ultimi anni il termine radicale, con cui viene normalmente denominata la sinistra non moderata, abbia avuto in sorte – anche per evidente demerito e scarso senso di responsabilità di molti dei protagonisti di queste vicende – il marchio svalutativo della marginalità istituzionale, della minorità ribelle e inconcludente, della insignificanza numerica e politica. 

    Eppure il termine radicale, per gran parte delle formazioni di sinistra italiane di cui discutiamo, non è apparentabile con l’estremismo. Almeno sotto il profilo teorico, la sinistra di orientamento marxista è stata per tempo vaccinata contro quella che è stata una « malattia infantile«del movimento operaio internazionale. Lenin aveva lungamente dileggiato, nel suo famoso saggio del 1920 sull ‘Estremismo, «La puerilità della “negazione” della partecipazione al parlamento» da parte di innumerevoli “sinistri” prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Compreso il nostro Amadeo Bordiga e i suoi compagni dell’ala comunista del PSI. E messo sotto accusa anche non pochi tratti di semplicismo parolaio circolante in quegli anni, e che tuttavia non è mai scomparso né dal lessico, né dalla pratica politica corrente. Ovviamente, in quei tempi di ferro e di fuoco, Lenin aveva in mente una prospettiva apertamente rivoluzionaria, che oggi non ci appartiene nelle soluzioni immaginate, nei metodi e nelle forme della realizzazione. Così come non ci appartiene l’aspro linguaggio di critica, di accusa di tradimento, ai dirigenti della Seconda internazionale, spesso personaggi grandi e lungimiranti, come Kaustky e Berstein. Ma, nella presente fase storica in cui Lenin, per la vulgata corrente, è diventato poco più di un criminale comune, giova ricordare per un momento che cosa è stato il pensiero rivoluzionario, il grado di intelligenza della storia cui esso è pervenuto. E’ un antidoto culturale contro il conformismo dominante rammentare i grandi passaggi d’epoca in cui il pensiero politico è stato capace d’immaginare e di perseguire un nuovo mondo possibile. Proprio nell’ Estremismo Lenin, il teorico del Partito avanguardia del proletariato, il capo bolscevico svolgeva queste sorprendenti considerazioni : 

    «La storia in generale, la storia delle rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più “astuta”, di quanto immaginino i migliori partiti, le più coscienti avanguardie delle classi più avanzate. E ciò si comprende, giacché le migliori avanguardie rappresentano la coscienza, la volontà, le passioni, la fantasia di decine di migliaia di uomini; ma la rivoluzione viene attuata in un momento di slancio eccezionale e di eccezionale tensione di tutte le facoltà umane, dalla coscienza, dalla volontà, dalle passioni, dalla fantasia di molte decine di milioni di uomini». 

    Occorrerebbe ricordarsene più spesso. Naturalmente la critica di Lenin all’estremismo viene qui richiamata per ragioni meramente filologiche, di ripristino della corretta storia delle parole e dei concetti. Essa non serve certo a mettere al riparo le formazioni della sinistra dall’accusa di estremismo, in una fase nella quale esso viene individuato e bollato in tutto ciò che non rientra nelle regole del conformismo e del perbenismo dominanti. A Rifondazione comunista, ad esempio, non è stata sufficiente la teorizzazione della “non-violenza” come scelta strategica di lotta politica, per farle guadagnare un’oncia di aura rispettabile nel panorama politico italiano. 

    Ma il termine radicale ha un’altra storia e oggi un nuovo significato. E’ stato Marx a dare alla parola radicale il significato che ora ci si presenta in tutta la sua potente attualità. Nella Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione , uno scritto del 1843, il venticinquenne Marx scrive:«Essere radicale significa cogliere le cose dalla radice .»: più precisamente, nella sua lingua, Radikal sein ist die Sache an der Wurzel fassen. E aggiunge :«Ma la radice dell’uomo è l’uomo stesso.». Ecco, dunque, uno sguardo di cui abbiamo oggi davvero bisogno. Per incredibile che possa apparire, viviamo una fase storica nella quale, nonostante l’immenso patrimonio di conoscenze di cui disponiamo, stiamo soffocando sotto la coltre di un occultamento totalitario della nostra umana radice. Qual’è il nostro fine, la nostra possibile felicità sulla terra, la nostra responsabilità verso le altre creature che la popolano, l’intera natura, le generazioni che verranno? Ci troviamo nella necessità di disseppellire l’intera umanità da uno strato gigantesco di conformismo che l’ha ormai trasformato in mezzo, strumento di un progetto ormai incalzante e distruttivo di crescita economica infinita. Tutti gli ideali di umano progresso e incivilimento che dall’Illuminismo in poi si sono susseguiti come orizzonti del nostro avvenire sono oggi ridotti a questa vacua teleologia dell’”andare avanti” e sempre sullo stesso sentiero. 

    Potremmo dunque dire, riprendendo il termine del pensatore di Treviri, che radicale significa affondare lo sguardo in profondità, nei meccanismi costituitivi dei processi materiali. E quindi compiere un disvelamento dei fatti sociali occultati dalle idee ricevute, dal conformismo, dal belletto ideologico dell’industria culturale. Giacché mai come oggi è stata tanto vera l’affermazione, dello stesso Marx, secondo cui «le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti.» 
    L’attualità di questa vecchia e controversa verità è confermata del resto da un fenomeno degli anni recenti che tutti abbiamo potuto osservare con stupore e costernazione: l’affermarsi di quello che è stato definito il pensiero unico. 

    Ma occorre essere più analitici. Uno sguardo può essere radicale se esso è capace di una prospettiva storica, se è in grado di scorgere il percorso temporale dei fenomeni, il processo della loro formazione nel tempo. Comprendere che i rapporti dominanti e le istituzioni in cui viviamo immersi sono l’esito di un modo di produzione che si è formato storicamente, è indispensabile per capire la loro origine e il loro significato generale, ma anche per afferrare la loro transitorietà. Costruiti dagli uomini essi sono destinati a trasformarsi e a perire. Sotto il profilo della storia del pensiero è perfino banale ricordarlo. Ma oggi questa elementare verità, questo senso comune dell’uomo moderno, riacquista una nuova freschezza, viene di nuovo a rompere la scorza dell’uniformità che ci sovrasta. Tutto questo perché il capitalismo tende oggi di nuovo, ma con una totalità planetaria sconosciuta al passato, a presentarsi come natura, mondo fisico immutabile, la realtà unica al di la della quale c’è il nulla. Ricordate il « There is no alternative>> non c’è alternativa, di Barbara Thatcher ? Lo scrittore e giornalista canadese Mark Fisher, in un suo recente Pamphlet, Capitalist realism, ha utilizzato l’espressione di “business ontology” ontologia degli affari, per definire la trasformazione totalitaria di ogni frammento di realtà in merce, la penetrazione del capitale nel tessuto vivente della realtà, il suo stesso farsi realtà unica e immodificabile della nostra esperienza. Essa ha trovato alimento – lo aveva colto con anticipo Pierre Bourdieu – nelle « politica di spoliticizzazione, che pesca senza vergogna nel lessico della libertà, liberalismo, liberalizzazione, deregolamentazione, tende ad assegnare un potere fatale ai determinismi economici, liberandoli da ogni controllo, e a sottomettere governi e cittadini alle forze economiche e sociali così’ “liberate”». 

    Ma occorre smontare, togliere i vari mattoni dell’edificio, per cogliere l’artificialità fasulla di questa costruzione umana che ha la pretesa di presentarsi come l’unica possibile ed è solo un tratto della storia mondiale recente del capitalismo, il calco ideologico del suo dominio. Io credo che l’aura di immodificabilità con cui il capitale, penetrato in ogni angolo della vita, si presenta oggi ai nostri occhi – tema su cui tornerò – dipenda almeno in parte dal dominio totalitario assunto dalla scienza economica e dalla sua degradazione in tecnica. E’ accaduto, infatti, al pensiero economico dominante quello che sembra essere il destino di tante scienze giunte al loro grado estremo di maturità. Da scienza sociale qual’e’ stata sin dal XVIII secolo e per buona parte del Novecento, essa si è ormai trasformata in una tecnologia della crescita economica. E la tecnica – non la scienza, come voleva Heidegger – la tecnica « 
    . Tutta l’ “intelligenza “ della tecnica, infatti, la sua incontenibile potenza, il suo successo, risiedono nella capacità di replicare i propri meccanismi costitutivi, di rimanere identica a se stessa nella sua operatività. La sua essenza, la sua anima operosa si esprime nel perseguimento dell’identico, nella replicazione senza scarti, sempre uguale e potenzialmente infinita, di un dispositivo. 

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