Domenica scorsa sul Corriere è apparso un articolo molto interessante, “Il potere vuoto di un paese fermo”.
Descrive molto bene le difficoltà del nostro periodo. Si sofferma sulla storia dei nostri ultimi venti anni, parlando non solo delle difficoltà economiche ma di altri tipi di problematiche più profonde. Il giornalista analizza quello che si nasconde dietro la crisi di un paese fermo. Analizza sia la classe dirigente che i cittadini. Inizia a farlo parlando del periodo della fine della prima repubblica, siamo nei primi anni novanta.
C’è il fallimento di una classe dirigente, ormai percepita come un corpo estraneo, in grado di favorire solo chi ci lavora all’interno e non i cittadini. C’è la sconfitta anche dei cittadini, capaci di entrare nella modernità solo in modo superficiale, con l’attenzione, ad esempio, spasmodica al mondo dei cellulari.
Secondo il giornalista si è perso quello spirito in grado di credere nel progresso di una nazione. Si è diffuso la convinzione di non farcela e di una impossibilità di migliorare le cose, lasciando spazio ad una rassegnazione inevitabile.
Ad esempio si è perso il raccordo tra le generazioni,” non sappiamo come il nostro passato si leghi al presente e come esso possa legarsi positivamente ad un futuro”.
Tutto questo quindi non è solo il risultato di una disfatta della classe politica, è qualcosa di più profondo e più pericoloso. Lo vedi nei discorsi quotidiani. Il giornalista insiste sull’importanza che questi temi possono avere sull’economia di un paese. Entra poi nella questione complessa delle larghe intese, su cui è meglio soprassedere.
Parla infine di Nord e sud come nazioni ormai separate. Su questo punto bisogna aggiungere che in questi giorni sono circolati dei dati incredibili, ovvero quelli dello Svimez sullo stato del Sud.I numeri che emergono non sono teneri. Tra tutti gli indici spiccano quello del Pil e dell’emigrazione. Negli ultimi 20 anni sono emigrati dal Sud 2,7 milioni di persone. Duevirgolasettemilioni.
Tra il 2007 e il 2012 Il Pil è sceso del 10%, la produzione manifatturiera è calata di un quarto e i posti di lavoro sono calati del 24 per cento.Si tratta di dati da inquadrare in un contesto generale di crisi, però gli stessi invitano a delle riflessioni importanti e richiamano tutti a ragionare. Penso che altri settori come il turismo siano cresciuti, ma non basta.
Lo Svimez punta il dito su due aspetti importantissimi: la mancanza di crescita e la necessità di una potente lotta alla criminalità organizzata. Senza questi due interventi non se esce.
mario
Duevirgolasettemilioni n.2
(La basilicata alla ricerca di sé stessa)
Mi ha colpito molto un articolo del “Quotidiano della Basilicata” (“Da una Basilicata insipiente a una Basilicata connessa”). In esso si parla di un incontro fatto a Potenza, organizzato dalla Uil e che ha visto come protagonista Giuseppe De Rita, presidente del Censis.
Nell’incontro è stato presentato un rapporto sulla Basilicata. A Potenza c’erano tutti, dai politici ai sindacati. Tutti pensavano che De Rita parlasse di politica, ma lui ha parlato di identità della Basilicata.
Ha fatto dei riferimenti alla Basilicata del passato per fare un confronto con i giorni nostri.
Cento anni fa i problemi della Basilicata erano diversi da quelli di ora.
Cento anni fa c’erano la lignite e come fermare l’avanzamento dei calanchi oggi ci sono acqua e petrolio. Ma l’ordine non cambia. Quello che intende dire è che nonostante i problemi siano di natura diversa, c’è una sostanza che non cambia per la popolazione. Si fa riferimento ad esempio al processo di alfabetizzazione (si cita Zanotti Bianco) che ha avuto indubbiamente un effetto positivo. Ma De Rita afferma che i risultati non sono stati quelli sperati. Afferma ancora che in questa regione ciò che è entrato è stato assorbito e rilasciato lasciando un aspetto disperante. È una società che ingoia le novità, ma come i ruminanti le mastica, senza averne gli effetti sperati.
Sono discorsi tutt’altro che astratti, e gli esempi non mancano. Le novità che sono arrivate nel corso dei decenni si sono tramutati in rimpianti. Ad esempio l’avventura dell’industrializzazione urbana che Potenza non ha saputo cogliere. Un altro esempio è quello del petrolio. De Rita dice che se le compagnie del petrolio trasmettessero i saperi alle popolazioni, ciò potrebbe fare più della costruzione di strade.
Lo stesso discorso vale per la rivoluzione digitale, che non è quello di avere 10 smartphone a testa, ma è quella di far utilizzare la tecnologia. Anche questa rivoluzione potrebbe aggiungersi alla lista chilometrica dei rimpianti di una regione alla ricerca di sé.
C’è un ultimo concetto che l’articolo accenna facendo riferimento alle parole di De Rita. È l’idea di sviluppo, che non è Nord contro Sud, è una connessione e si fa con la dimensione collettiva, che spesso i giovani trovano altrove.
De Rita ha toccato dei punti di una importanza decisiva, ha saputo descrivere come nonostante il progresso degli ultimi decenni permanga un’idea di disperazione che ha attraversato tutte le generazioni. E dovrebbe fare riflettere, perché non si è riusciti a cambiarla nonostante le grandi opportunità avute.
Mario