In questo articolo di Nicola Caracciolo, già grande firma di vari quotidiani e attualmente vice presidente di Italia Nostra, Montescaglioso è presentata come immersa in un tempo sospeso fra passato e futuro.
Effettivamente l’anno in cui fu scritto, il 1970, può considerarsi il punto temporale di uscita definitiva dall’immobilismo del “mondo contadino” e di perplesso approdo alla vita “altra” delle città industriali. Nel decennio precedente da Monte, come dall’intero Mezzogiorno, migliaia di braccianti, artigiani e, soprattutto, piccoli proprietari coltivatori diretti erano emigrati per il nord Europa. Un’emigrazione, come tutte, dolorosa, ma mitigata dalla speranza di “farsi” due-tre anni di Svizzera o di Germania – erano questi i principali paesi di destinazione – e poi tornare a casa.
Erano gli anni in cui, a fare da colonna sonora al particolare stato d’animo di chi partiva e di chi restava, dalle radio e dai giradischi impazzava Paul Anka con “Ogni volta” (1961, Ogni volta che devo lasciarti/porto tanta tristezza nel cuor/e mi resta soltanto la gioia/di pensare che un di’ tornero’.) e, a fine ciclo, “Che sarà” dei Ricchi e Poveri (1971) in cui l’idea del ritorno si faceva più incerta (che sarà che sarà della mia vita chi lo sa … e sarà sarà quel che sarà). Ed erano gli stessi anni in cui, con i fondi della Cassa per il Mezzogiorno e di altre leggi più o meno speciali, nelle nostre campagne si costruivano case rurali che non sarebbero mai state utilizzate per lo scopo per cui erano state finanziate. Anche perché spesso erano case nate già per essere demolite perché erano state fatte malissimo, su terreni inadatti e con materiali scadenti. Se quei soldi fossero stati dati, magari attraverso prestiti agevolati, ai contadini, molti non avrebbero avuto bisogno di emigrare.
Così come la grande emigrazione transoceanica degli anni 1876-1914 aveva avuto fra le sue ricadute quella di far aumentare il prezzo della terra e mantenere artificialmente in vita la classe dei redditieri agricoli, quella partita dal Mezzogiorno negli anni 1955-1975 aveva favorito con l’invio delle rimesse la nascita di un’imprenditoria improvvisata e lo sviluppo dell’edilizia selvaggia che ha imbruttito i nostri paesi.
Dopo aver pagato debiti e debitucci ed essersi comprata casa con i risparmi fatti all’estero, molti si trovarono nella necessità di rifare le valigie.
Di questo parla principalmente l’articolo di Caracciolo, dello sconforto di chi pensava di aver già pagato il prezzo del riscatto dalla miseria dormendo nelle baracche dei cantieri edili svizzeri o tedeschi e, invece, tornato in paese dovette prendere atto che si era illuso e che doveva ripartire. Questa volta per sempre.
Fra i giovani, più o meno impegnati, dell’epoca si discuteva se fosse politicamente più giusto partire o restare in paese per cambiare le cose. Al, già allora, un po’ retorico dilemma fra il “vado via perché” e il “resto qui perché” aveva accennato, ad esempio, Lina Wertmuller ne “I basilischi”.
Ho trovato interessante questo articolo proprio per l’accenno alla diversità di prospettiva che caratterizzava l’emigrazione per l’estero, considerata temporanea, e quella per il Nord Italia vista come un perdersi per sempre e uno stacco definitivo dall’universo paesano.
Forse era per compensare questo dolore che gli emigrati nel Nord Italia esibivano poi, tornando in paese per le feste, patetici atteggiamenti da torinesi o milanesi che tanto infastidivano quelli che erano rimasti in paese con il culo al caldo ad aspettare il posto.
Non la generalità della gente, ma i discendenti, per mentalità, degli antichi galantuomini che vedevano come il fumo negli occhi il cafone tornato rincivilito dall’America.
E fu allora che neppure la nostalgia fu più la stessa di una volta poiché da dolore per la lontananza del ritorno divenne disagio per il non sentirsi più a casa propria una volta tornati.
Da Montescaglioso alla metropoli industriale: un salto di secoli
Ricostruiamo il “cammino della speranza,, di un emigrante dalla Basilicata a Torino
Ecco la storia di Giuseppe Capobianco, 50 anni, sposato, con 6 figli – Per 3 anni lavora in Germania: 3 anni di solitudine e nostalgia, con l’unica preoccupazione di lavorare molto e spendere poco – Nell’agosto scorso torna al paese e con i risparmi si compra la casa. Ma in 7 mesi, come bracciante agricolo, guadagna 120.000 lire (complessive) – Così decide di ripartire – Stavolta per Torino, e il distacco è più doloroso – Quando si va all’estero, prima o poi si ritorna al paese; quando si va al Nord è sovente per un trapianto definitivo.
(Dal nostro inviato speciale)
Montescaglioso, febbraio. La sala parrocchiale in cemento appiccicata a una chiesa barocca è nuda e fredda. Niente riscaldamento. L’intonacatura dei muri è approssimativa, le seggiole usate e sgangherate. Don Angelo Bianchi, un prete di venticinque anni che dirige le Acli del paese, ha riunito un gruppo di lavoratori che sono appena tornati dall’emigrazione o che si preparano ad andare via. Si avverte subito quanto questa generazione sia diversa da quelle dei padri e dei nonni, eredi di un’antichissima e immobile civiltà contadina.
I giovani conoscono il Nord d’Italia, la Svizzera, la Francia, la Germania. Descrivono con competenza i problemi che hanno dovuto affrontare: l’alloggio, il salario, i tempi e la disciplina di lavoro, l’assistenza sociale. Si sono liberati dalla vecchia cultura nata dalla « miseria psicologica»: il perdurare per generazioni e generazioni di una tragica povertà aveva imposto un disperato sentimento dell’impotenza dell’uomo a risolvere qualsiasi cosa. Di qui il ricorso a un mondo di spirito e di forze arcane. Nel giro di pochi anni i lucani stanno facendo un salto di secoli; entrano d’improvviso nel mondo contemporaneo delle fabbriche, ed il costo di questo cambiamento può essere molto alto.
« II primo problema — mi dice Giuseppe Capobianco tornato qualche mese fa dalla Germania e che si prepara a ripartire per Torino, — sta nel decidere dove andare ». All’estero o nell’Italia del Nord? Paradossalmente la seconda è la più dolorosa. Chi va all’estero non si stacca del tutto dal paese. Capobianco per tre anni si è adattato a vivere a Volksburg, dove lavorava agli stabilimenti della Volkswagen. Abitava in una baracca, dove — dice — non si stava male. Era ben scaldata e pulita, c’era l’acqua calda per la doccia, lusso sconosciuto a Montescaglioso; ma gli ricordava la prigionia in Inghilterra. Tre anni di solitudine quasi totale: non aveva amici, aveva lasciato a Montescaglioso la famiglia, la moglie e sei figli: badava solo a guadagnare, a spendere il meno possibile, a fare quante più ore di straordinario.
I risparmi gli sono serviti a mantenere la famiglia e poi a comprare e rifare la casa: un blocco di tufo nel presepe di Montescaglioso con l’acqua calda, i mobili moderni di legno compensato, la televisione e il frigo. Perche, gli chiedo, lasciate la casa, dopo tante spese, per andare a Torino? Giuseppe Capobianco avrà una cinquantina d’anni, capelli grigi, baffetti grigi. A quest’ultima domanda si anima: lo si sente teso, quasi rabbioso.
Il vecchio mestiere
E’ tornato dalla Germania in agosto. Possiede in pianura due tomoli di terreno (un po’ meno di un ettaro), dai quali ricava il grano per il pane, il vino, l’olio. Pur di restare a Montescaglioso si accontenterebbe di un lavoro qualsiasi anche pagato poco. Ha ripreso il vecchio mestiere di bracciante agricolo: in sette mesi ha guadagnato in tutto centoventimila lire. Ha trovato occupazione soltanto al momento della raccolta delle olive. Con centoventimila lire in sette mesi noti ce la può fare.
Si arriva così alla seconda alternativa del dilemma. Benchè le possibilità di guadagno per manovali non specializzati siano tutto sommato maggiori all’estero, la preferenza per l’Italia del Nord ha motivi precisi: chi va a Torino o a Milano, non crede più alla possibilità di avere una vita decente in paese ed espatria quindi definitivamente. Tornerà solo una volta l’anno per le vacanze di ferragosto, che coincidono con la festa del patrono del paese, San Rocco, ancora venerato con un culto fra cristiano e pagano.
Santi e stregonerie
Nel 1946 d’estate ci fu in Lucania un periodo di siccità spaventosa. Il parroco d’allora a Montescaglioso rifiutò di compiere il rito tradizionale, portare cioè la statua del santo in giro secondo un itinerario preciso che si concludeva con l’immersione in un fontanile di campagna. Il sottofondo stregonesco lo inquietava. Però questi scrupoli erano destinati a durare poco; da tutta la zona affluirono su Montescaglioso migliaia di contadini: il parroco fu costretto a rispettare la tradizione per evitare violenze.
Qual è la distanza che divide il villaggio lucano del 1946 da Torino o da Volksburg? Cento anni? Mille anni? E’ un viaggio comunque difficile da compiere in pochi anni. Non stupisce che ci siano difficoltà d’adattamento per gli emigranti; sorprende invece che siano in tanti a riuscire a inserirsi e a far bene malgrado le enormi difficoltà, di lavoro, di psicologia, di ambiente.
Sono problemi di cui ci occuperemo in un altro articolo: oggi ci preme vedere la vita di Montescaglioso negli ultimi anni. Ho ripetuto agli emigranti la stessa domanda decine di volte: la risposta è sempre identica. Vanno via perché costretti: potendo, preferirebbero restare qui. Soprattutto per i vecchi il distacco è difficile. Certuni per esprimersi usano, senza rendersene conto, le immagini fisse della poesia contadina: «Avrei voluto essere un uccello per tornare a casa» m’ha detto una vecchietta che non è riuscita ad adattarsi a vivere a Torino con tutti i suoi figli.
Il segretario della Cgil di Montescaglioso ha ricevuto una lettera da un emigrato anziano sempre a Torino che cominciava cosi: « Quando penso agli amici gli occhi mi si riempiono di lacrime. Sono come una pecora smarrita dal gregge ». Un altro vecchio contadino invece ha riecheggiato in perfetta innocenza il tema di fondo di un classico della sociologia moderna. La folla solitaria di Riesemann. Pure lui era andato a Torino per seguire i figli e ne è tornato dopo pochi mesi. « Mi mancava (ha spiegato) il riconoscimento ». In paese conosce tutti ed è conosciuto da tutti, a Torino aveva rapporti solo con i figli; a casa s’annoiava, uscire e vedersi di fronte migliaia di facce sconosciute lo riempiva invece d’angoscia.
E, del resto, dell’attaccamento dei « montesi » (così si chiamano gli abitanti di Montescaglioso) per il loro paese ci sono segni innumerevoli. Il caso di Giuseppe Capobianco non è unico: i risparmi degli emigrati all’estero servono principalmente a comprare o a risistemare la casa. Gli assegnatari della riforma agraria in pianura si sono rifiutati in blocco, con vari pretesti. di vivere nelle case che l’Ente gli ha costruito. Alla sera tornano tutti in paese, soprattutto perché, il senso della vita in comune si traduce in un costume di vera e propria solidarietà sociale.
Il bracciante disoccupato può comprare a credito i generi alimentari indispensabili a tirare avanti. All’interno di un complicatissimo sistema di rapporti famigliari la gente è tenuta ad aiutarsi reciprocamente, e difatti a Montescaglioso non si vedono mendicanti. Tra i contadini c’è l’uso, detto « a retenna », di scambiarsi giornate di lavoro. Ci sono inoltre altre cose che contribuiscono a questo senso di vita associata: i bambini che giocano per strada protetti e amici di tutti, le chiacchierate da finestra a finestra e le interminabili discussioni la sera degli uomini sulla piazza e sul corso del paese.
Un paese tranquillo
Sono cose importanti: i carabinieri mi dicono che Montescaglioso ha uno degli indici di criminalità più bassi d’Italia. Non si registra un fatto di sangue dalla fine della guerra, praticamente sono sconosciuti i furti, non esistono alcoolizzati, pochissimi i suicidi. Eppure dietro questa situazione tranquilla c’è una storia tragica. Il paese (che si affaccia sulla Piana di Metaponto) per secoli, forse millenni, è stato oppresso dalla malaria, scomparsa solo con la fine della guerra, fame e miseria, un po’ alleviate adesso dall’emigrazione, hanno fatto parte del destino collettivo dei montesi. Ciò non toglie che siano riusciti a costruire — forse perche obbligati a farlo dalle stesse difficoltà delle loro condizioni — una comunità integrata e umana. « E gli uomini. — ha scritto uno dei maggiori urbanisti viventi, Lewis Mumford — possono costruire quanti agglomerati urbani vogliono. Ma non sanno come costruire artificialmente delle comunità vive ».
Nicola Caracciolo
(Pagina 2 de “LaStampa” del 17.02.1970)
Bello leggere questi vecchi articoli! Chissà se la famiglia Capobianco vive ancora a Torino dopo 40anni e se i suoi discendenti hanno ancora un legame stretto con Montescaglioso.
Personalmente mi ha colpito la frase dell’anziano emigrato che dice “mi mancava il riconoscimento”. Ora invece c’è chi emigra anche per fuggire la monotonia e conoscere qualche faccia nuova.