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San Rocco (in argento e in musica) – Cinquantunesimo Compatrono di Napoli

Riceviamo da Pietro Andrisani (pandrisani@libero.it) un bel documento sul nostro patrono San Rocco. Lo pubblichiamo volentieri.
 
San Rocco: statua in argento di Mariano Florio su bozzetto di Ernesto Calì. Foto di Giuseppe Floris

L’agiografia accreditata degli ultimi sette secoli sostiene che il taumaturgo più implorato dall’italiano meridionale, durante le calamità naturali è San Rocco di Montpellier. Subito dopo la sua morte terrena la fama del Santo trovò viva accoglienza tra i sudditi del Regno di Napoli, allora assoggettato prevalentemente a suoi corregionali: ci riferiamo agli Artois, ai Montfort, ai Baumont, ai Baucii, tutti baroni provenzali che, dietro perentori consigli di papa Clemente IV, avevano contribuito a togliere il meridione d’Italia agli eredi del ghibellino Federico di Svevia per consegnarlo al guelfo Angioino.

Da quel ‘trecento troppe volte il popolo napoletano ha cambiato padrone ma durante il suo lungo servaggiato si è sempre conservato gelosamente nella propria spiritualità la presenza del San Rocco prodigioso fino ad eleggerlo suo santo Patrono, a dedicargli toponimi di vie, di vicoli, di piazze, di cupe, di rioni; a rappresentarlo in preziosa lega d’argento e, finalmente, nella fine dell’XVIII secolo, a farlo esprimere da eroico personaggio nel teatro musicale d’impianto religioso.

San Rocco nasce a Montpellier nel giugno (il 24?) 1275 o ’95 dagli anziani coniugi Giovanni della Croce di un’antica e benestante famiglia della Gallia Narbonese e dalla signora Libera; fu chiamato Giovanni, nome dato ai neonati attesi da lunghi anni e giunto quando gli attempati genitori avevano persa ormai la speranza di gioire per la nascita di un proprio figliolo. Tradizione, questa, che sembra risalga all’epoca in cui i santi Elisabetta e Zaccaria furono finalmente rallegrati dall’arrivo del loro pargolo, il futuro Battista.

L’adolescenza di San Rocco fu segnata dalla immatura morte del padre. Colpito dal fervido fenomeno per le opere di carità praticato dai francescani del convento dei Gordiglieri fondato a Montpellier dai seguaci del santo di Assisi, Egli si isolò dai ricchi parenti alla ricerca spasmodica del nuovo corso da imprimere alla propria vita che avvertiva una religiosità genuina collegata al primitivo messaggio cristiano espresso nei Vangeli. Per la sua incrollabile fede e la propensione all’interventismo di natura filantropica fu chiamato Rocco (da roccia), come ricorda Felix Lope de Vega Carpio (Madrid, 1562-1635) nel suo dramma sacro San Roque.

Il giovane Rocco della Croce distribuì i suoi averi ai poveri e iniziò un lungo pellegrinaggio in Italia. Si recò a Roma per ottenere, in San Pietro, le indulgenze plenarie, ossia la remissione dei suoi peccati. In Italia settentrionale cercò di alleviare la miseria e le malattie dei poveri vessati dai soprusi dei signori e percossi dalle calamità naturali. Colpito dalla peste si rifugiò in una grotta dove sarebbe morto se non avesse avuto sostentamento da un cane. Guarito tornò in incognito nella sua città natale ove, sospettato di essere una spia, venne internato nelle carceri locali nei quali, il 16 agosto del 1327, diede serenamente la sua anima a Dio. Governatore e giudice della città era Guglielmo della Croce, suo zio paterno che solo dopo il decesso del portentoso nipote conobbe l’identità dell’inclito prigioniero.

Nella storia della taumaturgia più volte San Rocco, il potente protettore della peste, è stato invocato dai cittadini del Golfo di Megàride per soccorrere il loro Patrono ufficiale nell’esercizio della sue funzioni. I furori della peste scoppiata a Napoli nel 1528 durante l’assedio alla città operata dai francesi del generale Odet de Foix, visconte di Lautrec, nonostante i ripetuti ed accorati appelli a san Gennaro, continuarono a mietere vittime per molti mesi. Il terrificante contagio avrebbe avuto ancora lunga vita se non fosse intervenuto il Santo di Montpellier a miracolare la città prodigandosi con paziente e rocciosa volontà. Nei secoli successivi questo straordinario avvenimento si è ripetuto più volte nella religiosissima capitale del mezzogiorno d’Italia, specialmente nel culmine dei contagi degli anni 1656, 1854 e 1856. Gli appelli al taumaturgo occitanico per liberare Napoli dalla furia delle epidemie scoppiate negli anni sopra citati sono stati sempre rivolti inizialmente dai congregati della Real Arciconfraternita del SS. Rosario e San Rocco alla Riviera di Chiaia. E’ lo stesso sodalizio che ha arricchito il Tesoro di San Gennaro con la cinquantunesima scultura in argento che immortala san Rocco e i suoi simboli di specifica lettura medievale; è la stessa congregazione che con volontà rocciosa ha voluto che quel Santo venisse eletto compatrono di Napoli.

Costituita nel 1350 inizialmente l’Arciconfraternita ebbe sede in un piccolo locale del monastero San Sebastiano alla Riviera di Chiaia (nella zona di piazza San Pasquale) che gli storici vogliono essere stato fondato agli inizi del IV secolo da Sant’Elena, madre di Costantino il Grande. Dal 1530 l’associazione operò nella sacrestia della nuova chiesa edificata in quell’anno nei pressi dello stesso convento e dedicata a San Rocco per aver Egli salvato Napoli dalla peste scoppiata due anni prima. Da allora, per alcuni secoli il 16 agosto, il Corpo di Napoli ossia, il sindaco unitamente alle autorità civili, militari e i complessi musicali della Città, vi si è recato a tener Cappella per la celebrazione della morte del Santo. La chiesa, oggi incorporata in un palazzaccio della Riviera di Chiaia, doveva essere molto più ampia dell’attuale coi suoi cinque altari, nella nicchia del centrale era posta la statua del santo Patrono dei pellegrini.

Il monastero San Sebastiano che aveva sempre goduto di particolari privilegi concessi da alcuni dogi e re che si sono succeduti sul trono di Napoli, in un primo momento venne abitato da religiosi basiliani, successivamente dai PP. Benedettini e, dal 1300, per volere della regina Maria d’Unghria, dalle suore Domenicane. Lo jus pescandi, ossia, la riscossione del diritto di pesca per la parte del litorale prospiciente il monastero, accordato verso la metà del IX secolo da Sergio I, riconfermato da Carlo II d’Angiò ed infine da suo figlio Roberto, fratello di Beatrice, prima contessa Del Balzo di Montescaglioso, ne godette la chiesa di San Rocco e l’Arciconfratenita ivi ospitata.

I fondatori dell’Arciconfraternita del SS. Rosario e San Rocco furono pescatori, gente ideota, ossia, analfabeta, per cui le regole che la governavano vennero create e tramandate oralmente con sistemi che si basavano sulla prudenza, sul buon senso ed una stretta di mano.

Gli statuti, assai concisi, riguardavano le pratiche per l’ammissione dei fratelli e delle sorelle; il rito d’iniziazione degli stessi; l’ingresso e i privilegi dei benefattori; gli oneri canonici e la contumacia; gli obblighi e le penali in caso di trasgressione; i benefici goduti dai confratelli e i loro parenti più prossimi; il governo amministrativo; la elezione degli amministratori; gli obblighi dei cantori; i custodi della Terrasanta, ossia, delle sepolture; il monte per il mutuo soccorso; la conduzione degli uffici divini etc.

Solo nei primi mesi del 1751 i confratelli redassero il proprio statuto e il 30 settembre del medesimo anno era già munito del regio assenso. Assenso che diede all’Arciconfraternita vantaggi spirituali e privilegi sociali.

Il 25 febbraio del 1766 l’Arciconfraternita venne annoverata nell’ordine dei PP. Domenicani e fatta partecipe delle indulgenze del medesimo ordine. Il 9 aprile del 1819 Ferdinando IV che già nel 1781, nella zona antistante, aveva inaugurato la vanvitelliana villa comunale, riconsegnò all’Arciconfraternita la chiesetta di San Rocco dopo averla fatta abbellire con marmi e tele firmate da pittori di fama. D’allora nel luogo sacro il sodalizio regolò in proprio gli uffici divini mentre nei locali attigui, anch’essi rimodernati, decorati con quadri d’autore e arricchiti di pregiati suppellettili, i confratelli trattarono gli affari temporali e ospitarono nuovi adepti ora provenienti da ceti socialmente più elevati.

Ma il principale obbligo morale che l’Arciconfraternita ha avuto sempre in cima ai suoi pensieri ha riguardato l’elevazione di San Rocco a compatrono della città di Napoli rinnovando più volte la petizione al Presule di turno. Nel 1856, a causa della protezione sperimentata durante il colera del 1854 e la peste dell’anno in corso a Napoli e, rinnovando il comune desiderio dei Napoletani del 1656, del 1692 e del 1836, l’Arciconfraternita rivolse la sospirata istanza al cardinale Sisto Riario Sforza. Il primate, uomo di acuto ingegno e prelato di grandi virtù, riconoscendo il merito del grande taumaturgo francese, il 24 agosto dello stesso anno annoverò ufficialmente San Rocco tra i Patroni di Napoli. Per solennizzare l’avvenimento, la statua d’argento di San Rocco, fatta coniare diciotto anni prima dai confratelli del Rosario, venne portata in processione per le lunghe ed ampie navate della cattedrale illuminata a festa, gremita di fedeli congratulanti. Onorò la processione l’eccellentissimo Corpo della Città. Alla porta maggiore della Cappella del Tesoro San Rocco era atteso dalla statua in argento di San Gennaro. La solenne liturgia venne ufficiata all’altare maggiore del Tesoro vestita da arredi preziosi e con l’assistenza e l’omelia del cardinale arcivescovo. Il coro e l’orchestra della Cappella Musicale del Duomo eseguirono il Te Deum ed altre musiche d’intonazione gaudiosa.

La statua d’argento di San Rocco è opera di Mariano Florio che la modellò ispirandosi ad un bozzetto dello scultore Ernesto Calì. (Il bollo di garanzia rilevato sulla scultura è il medesimo che firma un servizio di posateria, una caffettiera ed una zuccheriera commissionata allo stesso argentiere verso il 1840, dal principe Nicola Pignatelli di Monteleone ed ora esposti nel museo Pignatelli Cortez d’Aragona alla Riviera di Chiaia, meta di tantissimi visitatori che vi giungono da ogni continente).

La statua di San Rocco pesa 115 libbre e 1 oncia; costò 1765 ducati. I critici d’arte Elio e Corrado Catello ritengono la scultura, unitamente a quelle dei Santi compatroni di Napoli Antonio Abate e Francesco di Paola, artisticamente più interessante tra le ottocentesche esposte nella Cappella del Tesoro. Essa rappresenta il Santo col ginocchio destro poggiato a terra e ornato dei suoi principali simboli: nella mano sinistra stringe la verga, il bordone del Pellegrino che ricorda il suo viaggio a Roma; il cane (con la pagnotta in bocca) che nella simbologia medievale è la guida dell’uomo nella notte della morte dopo essere stato il fido compagno nel giorno della vita; sulla sinistra anteriore della mantellina è fissata la conchiglia considerata mistico emblema della nascita e della morte.

Altre due pregevoli sculture in argento rappresentanti S. Rocco, fornite di bolli consolari napoletani, sono custodite una nella cattedrale di Ruvo di Puglia, l’atra nel museo di Guardia Sanframondi (Bn). La prima venne eseguita nel 1793 dall’argentiere Biagio Giordano su un disegno di Giuseppe Sanmartino; l’altra è adespota. Entrambe sono ornate di tutti gli attributi simbolici del Santo riconducibili a quel medioevo.

Un reliquiario di San Rocco, preziosissima scultura in argento, si conserva a Napoli, in una bacheca del convento di S. Gregorio Armeno. La preziosa urna, di ignoto e che porta lo stesso bollo consolare (CC/C) rilevato sul busto di S. Cataldo della cattedrale di Massalubrense, risale al 1690 circa, epoca in cui una deputazione dell’Arciconfraternita del Rosario a Chiaia si recò dal cardinale Giacomo Cantelmo per chiedere la compatronanza della città per i SS. Sebastiano e Rocco.

La Napoli di fede cristiana ha sempre ripagato il taumaturgato del Santo con fervide preghiere e durevoli opere tangibili. Nel 1656 alcuni benestanti napoletani scampati al flagello della peste fissarono la propria residenza sulla collina di Capodimonte edificando il casale che chiamarono San Rocco, oggi incorporato tra le zone di Miano e i Colli Aminei; nel quartiere Ponticelli venne costruito un agglomerato residenziale ed una chiesa dedicati al Santo di Montpellier.

Verso San Rocco la Napoli cattolica se è stata prodiga di attenzioni fino ad elevarlo a compatrono della città, si è dimostrata avarissima nel dedicargli un lembo di dramma sacro. Dopo la peste del 1656 l’alto clero, la classe politica, quella culturale e il patriziato napoletani, forse memori della peste che aveva ferito con disumana crudezza il loro viceregno, cominciarono a rappresentare nelle cospicue arciconfraternite e nel conservatorio di musica Santa Maria di Loreto melodrammi sacri che esprimevano la vita e i miracoli di nuovi santi, tutti forestieri, come Teresa d’Avila, Rosalia, Timpna, Giorgio, Casimiro, Onofrio: i libretti erano di Giuseppe Castaldi, la musica di Francesco Provenzale. In questo contesto venne dimenticato non solo l’oriundo San Rocco ma addirittura il napoletano di Castronuovo (PZ), Sant’Andrea Avellino. Solo tardivamente Napoli si è ricordato dei Santi di Montpellier e di terra lucana.

A colmare le gravi lacune della musicalissima Napoli intervennero le Arciconfraternite dell’Italia centro-settentrionale che rappresentarono cantate e melodrammi sacri, oratori dedicati ai prodigi del Santo di Montpellier. A Bergamo il 15 agosto del 1762 si diede inizio ai solenni festeggiamenti organizzati dai congregati della chiesa di San Rocco del Rione San Leonardo con la cantata La nascita di San Rocco messa in musica dall’abate Quirino Gasparini, maestro di cappella dell’augusta città di Torino, del Capitolo di San Petronio e accademico filarmonico di Bologna. A Bologna gli imponenti festeggiamenti congegnati in onore del santo protettore della peste spesso culminavano con la messinscena di un dramma musicale: il 16 agosto del 1666, nell’oratorio dell’Arciconfraternita dei SS. Sebastiano e Rocco venne eseguito Il San Rocco, dramma sacro su libretto del dottor Giovanni Luigi Piccinati, la musica venne composta dal diciottenne Pietro degli Antoni, già noto allora anche come eccellente suonatore di cornetto ed ebbe il merito di farsi udire da’ primi Principi d’Europa (Padre Giambattista Martini). Per le celebrazioni del 16 agosto del 1673 la medesima Arciconfraternita commissionò ancora al giovane maestro, l’oratorio Prigionia e morte di San Rocco, la poesia era stata composta da Filippo Ottanni. Per la cessata peste del 1697 i fratelli dell’Arciconfratenita vollero sciogliere un voto ai SS. Sebastiano e Rocco facendo eseguire nella loro chiesa la cantata Felsinea grata. Il libretto fu opera del padre agostiniano Tommaso Cervioni, lettore di logica in San Giacomo Maggiore della città; la musica di Francesco Maria Farnè, maestro di cappella della medesima Arciconfraternita.

Oltre alla protezione delle malattie contagiose è d’uso chiedere a San Rocco la tutela dei campi, degli armenti e della casa.

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