Il problema dell’eccessiva frammentazione della terra a cui accenna Titus è un elemento importante nell’economia agricola di qualunque paese, ma associare il concetto di latifondo a quello di agricoltura produttiva è un controsenso.
In Italia la questione della polverizzazione aziendale pesava moltissimo già prima della Riforma Fondiaria. Quello sulle proprietà è stato a lungo uno dei nostri segreti meglio custoditi. La prima indagine INEA sulla distribuzione della terra nel nostro paese è del 1947. E’ uno studio prezioso, ma incompleto perché censisce le proprietà e la loro superficie, non i proprietari.
In Basilicata si presentò la seguente situazione: la superficie agraria utilizzabile era di 957.884 ettari; le proprietà 279.069.
Di queste 142.060, oltre la metà, erano fazzoletti di terra che non superavano il mezzo ettaro; 87.106 andavano da 0,50 a 2 ettari. La microproprietà contadina cominciava con le 30.227 quote di estensione compresa fra i due e i cinque ettari; la fascia d’ampiezza che meglio rappresentava il tipico coltivatore diretto e garantiva, più o meno, la sussistenza era costituita dalle 10.124 proprietà di estensione compresa fra cinque e dieci ettari.; un gradino più su c’erano 5.762 proprietà formate da appezzamenti dai dieci ai venticinque ettari. La categoria dei piccoli possidenti era presente con 1.889 proprietà fra i venticinque e i cinquanta ettari, quella dei medi con 1.059 proprietà fra cinquanta e cento ettari.
Raggruppando un po’ i dati sulle fasce estreme (piccolissima e grandissima proprietà) il problema dell’iniqua distribuzione della terra si presenta in tutta la sua drammaticità:
• le 269.117 proprietà della fascia d’ampiezza da zero a 10 ettari detenevano 279.685 ettari;
• le 590 proprietà della fascia d’ampiezza da 200 a oltre mille ettari avevano un’estensione di di 360.116 ettari.
Questi dati, ripeto, danno conto delle proprietà non dei proprietari poichè due o più proprietà di una qualunque fascia d’ampiezza potevano far capo a un unico proprietario. Se poi dall’esame delle proprietà si volesse passare a quello di chi possedeva e coltivava realmente la terra, si entrerebbe nel regno del delirio tante erano le forme di affittanze e subaffittanze per lo più basate su contratti a voce e quindi non documentabili: dalle partitanze basate sulla durata di una coltivazione, ai tanti tipi di mezzadria impropria, alle colonie parziarie, alle affittanze capitalistiche di durata decennale che spesso si traducevano in espropri del proprietario.
Esisteva quindi il problema dei fazzoletti di terra, ma soprattutto quello del latifondo.
Titus mi insegna che il rapporto fra estensione coltivata e reddito ottenibile varia nel tempo, nei luoghi e, entro certi limiti, dipende dall’intraprendenza del coltivatore. Sicuramente per avere un’agricoltura produttiva e competitiva è necessario partire da aziende di una certa dimensione o da piccole e medie aziende associate nell’acquisto e nell’uso delle attrezzature, nei rapporti col mercato, ecc. Ai giorni nostri si ritiene addirittura necessario specializzare le aree agricole in particolari colture.
La riforma agraria era da molto tempo ritenuta necessaria per motivi sociali, forse quasi più che per motivi economici, per far uscire il nostro paese, e il sud in particolare, da rapporti fra proprietari e lavoratori della terra che gli economisti agrari di vario orientamento consideravano semifeudali.
Si faccia caso a cosa scriveva, nel 1939, il prefetto di Matera Stefano Pirretti, buon conoscitore della situazione in quanto originario di Ferrandina, al riguardo:
L’unico sforzo veramente eccezionale che nel settore politico occorre compiere non è quello di forgiare la massa, giovane o anziana che sia, del popolo lavoratore della provincia -che, essendo sano, si presta ad essere immediatamente e perfettamente plasmato- bensì di fascistizzare il tipo borghese del possidente, del ricco o arricchito, e del signorotto a tipo meridional feudale, retrogrado al cento per cento. Ora in quest’ultimo settore l’azione del partito in provincia ha sortito scarsi risultati. La maggior parte di codesti gruppi borghesi, i cui giovani o giovanissimi discendenti costituiscono un vero e proprio pericolo da eliminare, o vive assolutamente appartata ed ostile, oppure ostenta solo per calcolo disciplina e devozione.[…] Qui il latifondo è dato dal proprietario, che vive nei grandi centri, in affitto ad un industriale della terra, che è un vero e proprio sfruttatore e bagarino della stessa; sfruttatore quando la coltiva direttamente per trarre il massimo rendimento; bagarino quando sub affitta la terra meno fertile, che non è sua, al piccolo misero agricoltore che paga un canone per lo meno doppio di quello che in proporzione paga il bagarino. Sono questi due tipi che, anche se camuffati da uomini nuovi, da Fascisti perfetti, costituiscono il vecchio mondo da eliminare. Ma perché l’eliminazione sia completa e definitiva occorre che il sub affitto sparisca, e con esso il bagarinaggio della terra; che il latifondista, il quale finora non ha voluto o saputo appoderare la sua terra, vi sia costretto da una legge che non si presti a sotterfugi, rassegnandosi almeno al non grave lavoro di trattare non coll’unico o i pochissimi bagarini, ma con i molteplici concessionari di poderi, i coltivatori diretti; che in fine il contadino capisca [che deve, ndr], e, se occorre, sia costretto a vivere con la sua famiglia nel suo podere e non nei piccoli centri abitati, dove tutte le energie fisiche e morali si arrugginiscono e poi si atrofizzano o incancreniscono nell’accidia, nel vizio o nell’odio reciproco. Se tutto ciò verrà imposto con apposita legge il compito di liquidare il vecchio mondo, in questo modo, sarà facilmente e rapidamente assolto. (C Magistro, “Il Materano fra totalitarismo e liberazione alleata” in Bollettino storico della Basilicata, n. 21/2005).
Ciò che colpisce in questa veemente dichiarazione che costerà al suo autore il pensionamento anticipato, è il giudizio realistico e impietoso sui vecchi e nuovi agrari (i signorotti, gli arricchiti), sullo sfruttamento cui erano sottoposti i contadini, sulla cappa di odi e pettegolezzi che gravava sui paesi e li teneva – succubi della sottocultura dei galantuomini che si era infiltrata in tutti gli strati sociali- come sotto incantesimo. Altro elemento interessante in questa ipotesi di concessione di terra ai contadini – che, per inciso, esisteva solo nella mente del prefetto – è l’insistenza sulla necessità di forzarli ad andare a vivere in campagna, più che a fini pratici e produttivi, per sottrarli all’influenza di borghesi e signorotti.
La questione della resistenza dei contadini all’abbandono dei centri abitati si ripresenterà, come vedremo, puntualmente a riforma avvenuta.
La Riforma Agraria fu varata nel 1950, le prime assegnazioni furono fatte nel 1953, l’assestamento degli assegnatari sulle terre arrivò qualche anno dopo. Per questi motivi l’Ente Riforma cominciò a essere chiamato riforma lenta.
Non fu, assolutamente, una decisione presa in fretta e in furia. Era dall’autunno del 1943 che in tutto il sud c’erano agitazioni per la terra alle quali parteciparono nella prima fase, cioè fino al 1946, soprattutto i piccoli proprietari.
Tanti anni fa, facendo la tesi di laurea sulle lotte per la terra in provincia di Matera fra il 1943 e il 1947, rimasi sorpreso nel vedere i nomi dei primi capipopolo montesi nelle agitazioni per avere le terre dei Tre Confini e della Dogana.
La Riforma Agraria fu consigliata al nostro governo persino da quello americano e sostenuta costantemente dai suoi rappresentanti diplomatici in Italia. Nei primi anni cinquanta l’ambasciatrice USA Clara Booth Luce si scomodò fino a visitare Matera, considerata in quegli anni la capitale dei contadini del Sud, col pretesto di visitare i Sassi insieme a Colombo.
I partiti di sinistra avevano sostenuto e guidato le lotte per la terra in tutti i modi, soprattutto badando a non farle uscire dalla legalità, ma furono totalmente esclusi dalla gestione delle assegnazioni. Anzi, come accade nei culti protestanti che spettacolarizzano la conversione dei peccatori, furono organizzate manifestazioni per rendere pubblico il passaggio dei contadini dai partiti di sinistra alla DC e ci fu chi strappò sui palchi la tessera di iscrizione a questi.
Potrei citare al riguardo cosa scrivevano prefetti e questori, ma non è questo il punto.
La cosa grave era che in questo modo si aumentava la disgregazione sociale, si avvelenavano i rapporti fra gruppi, famiglie e individui, si dimostrava ancora una volta che chi piegava la testa era premiato, ecc. Il presidente della Coltivatori Diretti Paolo Bonomi vedeva nella piccola proprietà contadina una diga contro il comunismo; gli assegnatari dell’Ente Riforma dovevano esserne i pilastri. La cortina di ferro che separava i paesi comunisti dal “mondo libero” in realtà fu idealmente costruita anche da noi per separare i lavoratori.
Non ha importanza sapere chi erano a Monte quelli dell’avemaria e chi quelli del pater noster. Non sono sicuro di saperlo neanche io e se lo sapessi non lo direi. Non è di questo che si deve occupare la riflessione sul passato. Traiamone piuttosto la riflessione che in ogni partito e in ogni religione c’è sempre il sagrestano che si sente in dovere di mostrarsi più zelante del papa e così facendo immeschinisce anche le buone ragioni della sua religione.
Detto questo, va sottolineato che sul fallimento della Riforma Agraria incisero anche gli atteggiamenti di prevaricazione, umiliazione e controllo politico-sociale imposto ai contadini dai funzionari dell’Ente Riforma che, comportandosi come se loro personalmente ne fossero i benefattori, arrivarono a far rimpiangere i vecchi agrari.
C’è tutta una letteratura e una documentazione, in larga parte inesplorata, sugli abusi e la corruzione di costoro.
Un altro elemento che pesò sul fallimento della Riforma fu di tipo culturale: la gente non voleva trasferirsi in campagna perché sentiva l’allontanamento dal paese come deportazione, declassamento, morte sociale. Quando si analizzano fatti complessi come questi non bisogna sempre e soltanto mettere in risalto errori dei governanti e colpe dei “politici”, ma anche rigidità e responsabilità dei governati che possono rendere sterili anche buoni provvedimenti.
Diciamo che alla Riforma Agraria, mancò comunque il sostegno di efficaci azioni di accompagnamento. Il fenomeno fu ben avvertito da un osservatore dell’olivettiano movimento Comunità come Riccardo Musatti che ne “La via del Sud”, Milano 1955, riporta un’illuminante testimonianza sul senso di perdita e spaesamento provato dagli assegnatari dell’Ente Riforma.
Spiega una donna: “Quando eravamo al paese […] mio marito andava a giornata. Lavorava poco, è vero, cento o centocinquanta giornate all’anno, per un boccone di pane. Ma quando non era sulla terra, faceva il carrettiere, o il muratore, o portava l’acqua alla cisterna dei signori. Anche così guadagnava poco, ma quando non aveva niente da fare, saliva in piazza e si consolava. E intanto io bussavo alla porta della vicina mia e questa mi prestava un pane, un pomodoro, un mazzo di erbe e, tutti, si mangiava fuori delle porte, assieme”.
Non furono tuttavia questi i motivi sostanziali del fallimento di una Riforma che, in ogni caso, creò migliaia di nuove aziende che hanno resistito nel tempo e, dalle nostre parti, ha trasformato casali e villaggi come Metaponto, Scanzano, Policoro e Nova Siri in grandi centri. Fu piuttosto il complesso processo di trasformazione dell’Italia in paese industriale e la crisi di un’agricoltura sempre più dipendente e parente povera dell’industria che abbassò i già precari redditi della gente di campagna.
Nei primi anni sessanta i nostri paesi si svuotarono, chi era rimasto si commuoveva a sentire Paul Anka e Nicola Di Bari che cantavano, non so se i titoli sono giusti, “Ogni volta che torno”, “Paese mio”, ecc. Probabilmente la stessa cosa facevano gli emigrati.
I piccoli proprietari erano pieni di debiti e spesso partirono insieme ai braccianti che durante la mietitura o per la raccolta delle olive prendevano a lavorare per qualche settimana. Il pane, il vino, l’olio e la frutta non mancava quasi in nessuna famiglia, il contante quasi in tutte.
In quegli anni alcune piccole cose si potevano ancora avere “a cambiamerce”, il gelato da Mestr’Antonio, le scarpe da Ci ten’ova, un taglio di capelli da Padula; qualche calzolaio e qualche fabbro accettava ancora di essere pagato un tanto all’anno con una certa quantità di grano, ma gli scambi in natura erano ormai residui folklorici.
Ormai per tutto ci volevano gli “sghei” e quelli proprio non c’erano.
Presero la strada dell’emigrazione padri di famiglia e giovani insofferenti dell’autoritarismo dei vecchi padri e della vita “antica” cui erano costretti sotto la loro guida. Volevano vestirsi più decentemente, potersi lavare un po’ di più, avere cento lire per un caffè e una serata al cinema, andare a ballare.
E poi: le “nordiche” non stavano tutte ad aspettare loro?
In alcuni casi furono le donne, l’anello forte di sempre, a preparare la valigia e a partire per risollevare le sorti di famiglie i cui maschi consideravano l’emigrazione un disonore.
Non si ha idea di quanta e quale gente emigrò.
Perché non avrebbero dovuto partire anche gli assegnatari dell’Ente Riforma?
Al ritorno degli emigrati, in estate, si ascoltavano storie strepitose su quante tedesche avevano conquistato e su quanto erano babbei i maschi tedeschi, svizzeri, francesi, ecc.
Probabilmente storie dello stesso tipo circolano adesso sulle italiane e gli italiani nei villaggi marocchini… In agosto, al ritorno degli emigrati, si fumava svizzero, americano, tedesco. Per vie misteriose qualche pacchetto finiva anche a noi ragazzotti e via. Che avete venduto la “maiolica”, diceva qualche anziano.
Ricordo personale: un mio amicone aveva sgraffignato una bottiglia di wisky al padre tornato dal Sud Africa e con impegno e sofferenza ce la scolammo.
In due, in un pomeriggio d’estate, in zona cantine del Vallone.
Bevendolo ci commuovevamo al pensiero dei sacrifici che era costato quel wisky, per non pensare alle mazzate che avremmo preso se ci scoprivano continuammo a bere anche se non ci piaceva.
Riportare a casa la bottiglia aperta non era possibile, buttare ciò che ne restava ci sembrava ingiusto. Odiavamo le ingiustizie.
Pensavamo di poter scegliere e dovemmo vomitare l’anima e tornare a casa in uno stato così penoso che le mamme non ci degnarono di uno schiaffo.
Se la piccola proprietà da noi ha tenuto ancora per qualche decennio è stato grazie ai soldi sudati in Svizzera o Germania dai piccoli agricoltori per la maggior parte dei quali l’emigrazione fu un’esperienza temporanea. La cosa assurda era che mentre questi erano costretti a dormire nelle baracche o in stanze sovraffollate all’estero, i governi finanziavano la costruzione di case coloniche sulle loro terre.
Sono ancora sotto gli occhi di tutti quelle case nate lesionate, le nostre campagne sono ancora punteggiate da quei monumenti allo spreco di risorse pubbliche. E “i mediatori”, i tecnici che prepararono pratiche e progetti per quelle opere, hanno ancora il loro bravo pacchetto di voti e lo fanno pesare nelle competizioni elettorali.
Nessuna immagine meglio di quella delle case di campagna pericolanti nelle nostre contrade rappresenta meglio la fine del cosiddetto “mondo contadino”.
Eppure gli attuali ottantenni sono stati anche gli artefici di progressi per i quali le generazioni precedenti avevano impiegato secoli.
Nati quando si usava ancora l’aratro di legno, sono poi passati a quello a chiodo, a voltaorecchi, al bivomere, dai gloriosi Landini, ai potenti gommati. Sono passati dalla coltivazione delle cicerchie e delle lenticchie bibliche, a quella del grano Senatore Cappelli e di varietà di grani teneri sempre più precoci e resistenti ai temporali; dalla coltivazione dei meloni per uso famigliare ottenuti con i semi conservati anno dopo anno – buoni ma imprevedibili per pezzatura colore e sapore- alle raffinatezze e ai veleni delle serre. La produttività delle terre è aumentata nel corso della loro generazione di quattro-cinque volte; hanno vissuto -e i loro eredi vivono- il dramma assurdo di coltivare prodotti destinati alla distruzione.
Molti hanno fatto guerra, prigionia ed emigrazione ed adesso sono accuditi da badanti rumene. Hanno vissuto e contribuito a cambiamenti epocali, ma è toccato proprio a loro, a questi eroi -ridiamo dignità alle parole usurate dall’abuso retorico- del lavoro, assistere al tramonto dell’attività che aveva dato origine alla civilizzazione dell’umanità.
View Comments (8)
Caro professore.
Il concetto di latifondo produttivo è rappresentato dalla grossa azienda. diuna superficie in ettari che superano di gran lunga i 100.00.00.
Nella nostra realta produttiva nel corso degli anni vi sono stati fatti investimenti tali che li dove una volta era solamente coltivato grano oggi nascono viti da vino oliveti frutteti ed ortive (anche se oggi molto meno)etc...
Accostare il concetto di latifono come superficie steriotipata tipo il signorotto che risiede a Napoli scende solo per verede se si fa qualcosa e controllare il Massaro un po come nel film "la Lupa" oggi è anacronistico chiarito ciò... quindi la invito a porre correzione nella sua introduzione del post.
Non ho minimamente sostenuto che il latifondo nell'accezione pura del termine fosse una forma conveniente di produzione o gestione economicamente valida per le aziende agricole.
Infatti ho parlato di latifondo produttivo o se vogliamo essere precisi Grandi aziende.
Che per La Ue gia sono aziende superiori ai 60.00.00 ettari.
Storicamente si è visto che gli stessi latifondi erano strutture obosolete e con un efficenza tecnica minima, in cui non vi erano forme di miglioramenti nelle tecniche di produzione.
Inoltre il latifondo si basava essenzialmente su aziende estensive, coltivate a cereali oliveti (impianti tradizionali), e vigneti.
Come immagino sa benissimo parlare di Riforma Agraria è un pò eccessivo in quanto trattasi di Riforma Fondiaria ( quindi essenzialmente ridistribuzione di Terre "incolte" o nella migliore delle ipotesi marginali.
La prima vera Riforma Agraria fu fatta con i piani Verdi in cui vennero promulgati vasti piani di miglioramento Fondiario.
Altro Fattore importantissimo era l'acqua... per produrre in agricoltura c'è bisogno dell'acqua e fino a quando non vennero eseguite opere di bonifica integrata che portarono acqua ai campi la nostra agricoltura era sempre di sussistenza.
Con la comparsa dei consorzi di bonifica e di gestione delle acque venne data alla luce una nuova pagina storica dell'agricoltura moderna passando da una agricoltura tradizionale ad una di produzione.
Poi ho semplicemente detto ciò che è accaduto nel corso degli ultimi decenni, che i piccoli poderi non sono più sufficenti a sostentare una famiglia dato l'esigua Superficie coltivabbile, molti di questi poderi appartenenti un tempo all'ente riforma sono stati acquistati da persone che stanno "giustamente" ingrandito le loro aziende ricostituendo grosse strutture produttive, oggi tecnicamente più efficenti.
Le porto un Piccolo esempio, la zona di scanzano jonico e policoro a ridosso della 106 jonica...
dove sorgono le case coloniche... li vi sono i poderi dell'ente riforma di circa 5.00.00 ettari fino a 15 venti anni fa la gente viveva con ciò che produceva sul suo podere, fragole, albicocche, pesche ed altro....
non parliamo dei vigneti da tavola ricordo quando facevo le superiori 1.00.00 la risultante in prodotto venduto a £ 25.000.000/30.000.000.
se recarsi oggi come capita sovente al sottoscritto di andare in quelle zone vede la desolazione + totale, le porgo un invito se mai dovesse ritornare in monte e vuole farsi un giro per vedere gli effetti della Riforma Agraria o fondiaria sono disposto ad accompagnarla in queste aziende per vedere con moano gli effetti.
Senza nota di polemica, ma con sincera volonta di mettere a conoscenza una realta diversa.
Prendo volentieri atto del fatto che, come dice Titus, l'espressione "latifondo produttivo" sta ad indicare nel linguaggio degli economisti agrari realtà di agricoltura avanzata basata su grandi aziende. Io mi ero riferito alla nozione di latifondo indicata dai più comuni dizionari.
E' giusta anche la distinzione da lui fatta fra riforma agraria e fondiaria. Se per riforma agraria si intende un cambiamento che riguarda l’insieme delle strutture agrarie e incide non solo sulla distribuzione delle terre, ma anche sui tipi aziendali, sui contratti agrari, sul lavoro agricolo e così via, è vero che la "legge stralcio" (del 21-10-1950, n° 841) non può considerarsi una vera e propria riforma agraria, ma fondiaria.
Anche in questo caso però quella legge è comunemente indicata come legge di Riforma Agraria.
Ringrazio Titus per la disponibilità ad aggiornarmi sulla situazione attuale nelle zone della Riforma. Se mi sarà possibile ne approfitterò.
Se si dovesse profilare l'occasione di fare questo giro, rimango a sua disposizione
Complimenti come al solito al tuo perfezionismo ed alla tua chiarezza, ed un grazie di cuore per aver accolto il mio invito ad intervenire sulla questione che hai affrontato con “distacco” e rigore, un altrettanto grazie a titus, che con la sua “provocazione” ha dato la possibilità di accendere un proficuo confronto storico e tecnico sui meccanismi e le dinamiche sociali e politiche che hanno attraversato per quel periodo della nostra storia.
La verità non è certamente custodita solamente nell’analisi fatta da Magistero, ma mi sembra di cogliere, dalla sua analisi, due aspetti sostanziali del dibattito in corso; che la Riforma sia stata un colossale fallimento, mbè … questo non me la sento di poterlo asserire con assoluta certezza, giacchè sul piano sociale, quel provvedimento ha sicuramente sdoganato l’Italia meridionale da sistemi feudali che stentavano a sparire; dall’altro lato, la Riforma ha costituito, purtroppo, un micidiale sistema di controllo di una parte della popolazione meridionale, attraverso il quale, la DC di allora, assicurò e rafforzò il suo potere politico. … Bonomi … i cento deputati della coldiretti… i Consorzi Agrari …. La FATA ecc…. ( e non vorrei dilungarmi più di tanto)
… diamo a Cesare quel che è di Cesare …. Lasciamo stare le Camere del lavoro …ed i comunisti … (ed anche i quattro dell’Avemaria)
Mi sorge spontanea una domanda: Come mai, all'epoca, non si è riusciti a creare una situazione tipo Emilia-Romagna? Cioè con la nascita di cooperative di agricoltori. Provate ad immaginare cosa sarebbe successo? Che tipo di sviluppo avrebbe avuto la nostra Regione e in particolare il nostro Paese? Ringrazio anticipatamente e vi mando un caro saluto.
Provo a rispondere velocemente.
L'agricoltura dell'Emilia Romagna aveva assunto caratteristiche pienamente capitalistiche, cioè produceva per il mercato (interno ed estero), già nell'Ottocento. Questo anche grazie alla prossimità a grandi centri e alla vicinanza ad importanti strade di comunicazione.
I braccianti ed i mezzadri di questa regione vivevano tutto l'anno insieme nelle grandi cascine e questo dava la possibilità di acquisire piena consapevolezza della loro collocazione di classe, come avverrà per gli operai delle grandi fabbriche.
A questo riguardo il film "Novecento" di Bertolucci offre un affresco abbastanza fedele della situazione.
L'agricoltura meridionale, fatta eccezione per alcune aree particolari, era un'agricoltura di sussistenza e basata sulla monocultura cerealicola e quindi a basso assorbimento di manodopera, ad alta esposizione all'andamento climatico, a forte rischio di concorrenza del grano americano, ecc..
La grande proprietà terriera nel sud Italia si era formata dopo l'unificazione con l'acquisto - e spesso l'usurpazione - dei beni demaniali ed ecclesiastici. In queste operazioni gli improvvisati acquirenti avevano esaurito tutto il loro capitale e spesso dovettero rovinosamente rivendere i latifondi.
Il massimo dell'imprenditorialità in molte zone del sud è esemplificato dal Mastro Don Gesualdo di Verga.
Le terre furono sottoposte a pratiche di rapina: disboscamenti selvaggi e sfruttamento della loro "verginità" per alcuni anni senza ricostituirne la fertilità con concimazioni, rotazioni, ecc.
Il sistema dei subaffitti dei latifondi o parti di essi aveva due-tre passaggi.
I contadini si facevano una feroce concorrenza fra di loro per ottenere terre in subaffitto.
Questo, a grandissime linee, può aiutare a capire perchè mancavano da noi i presupposti per avere un'agricoltura e un associazionismo di tipo emiliano.
In realtà la storia della nostra agricoltura è complicatissima.
Un'altro fattore limitante ad un tipo di agricoltura produttiva nella nostra realtà è stata l'acqua.
Le grandi opere di bonifica che hanno permesso il risanamento di vaste aree sono venute molto tempo dopo.
Non sarebbe corretto immaginare il nostro territorio nel XVII-XVII secolo come lo si vede oggi.
Le nostre Prouzioni come facea giustamente notare il Prof. magistro si basavano essenzialmente su Cereali, Oliveti, vigneti...
Le Colture Estensive e Produttive di Orto-Frutticole sono venute moltissimi anni dopo.
Inoltre nella nostra realta era molto sviluppato il giardino orto...quindi giardino utilitaristico...molto presente in prossimità o all'interno di case padronali....
Oggi si posono notare ancora o ciò che ne rimane questi Giardini Utilitaristici lungo le via Fanelli a Bari.
Ma essenzialmente erano posti in piccoli appezzamenti vicino a pozzi sorgivi o di acqua piovana.
Grazie per la chiarezza della risposta. Ma oggi come è la situazione? L'irrigazione e la distribuzione dell'acqua nei campi è una realtà, di cooperative ne esistono di tutti i colori politici, i mezzi per dare visibilità ai prodotti della nostra terra ci sono( li vedo nelle mostre a Torino!!). Quindi i presupposti per un certo sviluppo ci sono, perchè non si procede nella direzione dell'associazionismo?
P.S. Scusate se insisto sulla cooperazione, ma mi sembra che sia una strada che si deve percorrere per far diventare l'agricoltura della nostra terra una vera industria. Un caro saluto a tutti.