Non tutti nella capitale
sbocciano i fiori del male
qualche assassinio senza pretese
lo abbiamo anche noi in paese.
(Fabrizio De Andrè, Delitto di paese)
Verso l’una del 4 maggio 1889, Vincenzino G. pensò bene di andare a farsi una partitella a carte e qualche bicchiere di vino con il suo amico Giuseppe Tantalo nella cantina di Eustachio Astrella, a Porta Sant’Angelo. Una scelta probabilmente non casuale dal momento che questa, pur prossima al centro nevralgico del paese, consente a chi non voglia dare troppo nell’occhio di arrivarci dalla stradina che costeggia le cantine private. E proprio quello fu il problema che si pose al nostro, quando verso le sei, ubriaco perso, decise che per quel giorno bastava.
Vincenzino, di professione sarto, aveva ventidue anni e, come si vedrà, una certa considerazione di sè. Nello stato in cui si trovava non gli sembrò quindi bello offrirsi ai commenti della gente di piazza. La conosceva bene lui quella gente poichè, da artigianello, ne faceva parte. Passando per il cosiddetto corso, si sarà chiesto, quanto ci avrebbe messo lo zio a sapere come era conciato? Bisogna sapere infatti che sua madre, rimasta vedova, si era risposata e il giovane era stato affidato allo zio Felice M. che di figli non ne aveva avuto. Un personaggio di un qualche riguardo questo zio, da tutti conosciuto come Felice Tusch (Tosco), non nel senso di toscano e neppure di tossico come lo intendiamo oggi, ma – presumiamo – di persona aspra e severa nel giudicare le altrui manchevolezze. Stando così le cose, avrà pensato che non sarebbe mancata l’anima buona che si sarebbe precipitata a informarlo sulle sue condizioni.
Decise quindi di rientrare a casa passando sotto la strada della Torre. Arrivato però in via Salnetro pensò di fare una visita a Nunzia A., una diciottenne un po’ alla buona, con la quale da vari mesi, a suo dire, se la spassava.
La trovò sull’uscio di casa. Madre, sorella e fratello erano andati a far visita a dei parenti, ma non era sola. Vicino al letto, nell’unica stanza di cui si componeva l’abitazione, stava infatti la nonna, Nunzia M., in onore della quale la ragazza era stato così chiamata, un’ottantenne cieca e pressochè sorda. Visto che il campo non era libero, l’impresa ( un rapido rapporto sessuale?) si presentava difficile, ma non impossibile. L’anziana, si è detto, non ci vedeva e ci sentiva poco, ma bisognava pur farla uscire dalla stanza. Per indurla a venir fuori lo spasimante trovò allora la scusa che aveva bisogno di uno zolfanello, ma l’anziana, piuttosto combattiva, glielo negò e si accese allora una discussione che forse fece dimenticare all’ubriaco la tattica da usare per raggiungere lo scopo. Glielo negò non per l’importanza della cosa, dirà, ma “perchè non avendo il G. alcuna famigliarità con noi, parve a me un pretesto la sua richiesta, nella quale scorsi invece il fine recondito di entrare in dimistichezza con l’anzidetta mia nipote presente, desumendolo dal naturale istinto dell’uomo che lo spinge alla caccia della donna, come suol dirsi, specie fra giovani quali essi erano”.
Dubitiamo che questa e gli altri testimoni che di seguito si citeranno, tutti analfabeti, possano aver usato un linguaggio così forbito, ma dobbiamo tenere per buona la “traduzione” che del loro dire ebbe a fare il pretore Michele Satriani nel dettarle al cancelliere che lo assisteva. “Al diniego – prosegue la stessa – feci seguire l’ingiunzione che fosse uscito di casa mia scambiata da lui per bottega di fiammiferi; ma il G., bestemmiando e spadroneggiando, andò invece a situarsi più in fondo presso il letto, d’onde eccitava me ad appressarmi a lui per farmi sevizie: io rispondevo invece stizzita che fosse venuto lui da me, perchè le donne oneste e coraggiose stavano all’aperto e non nei cantoni: uscendo poi G. di palo in frasca, diceva pure che m’avrebbe privata della ripetuta mia nipote presente essendo suo proposito di collocarla in casa di sua disposizione a modo di mantenuta.” Naturalmente la donna contrastava tale intenzione mentre il G., sempre stando dentro casa e vicino al letto, le ripeteva e ne aggiungeva di simili riguardo ai suoi diritti sulla giovane.
La scena durò circa mezz’ora, con l’ubriaco vicino al letto, la donna seduta presso l’uscio e la ragazzetta, seduta sul più alto dei cinque gradini per i quali si scendeva all’abitazione, che “se la rideva soltanto delle stravaganze e spropositi del G., senza affatto interloquire”. Quando però la nonna le dice di andare a chiamare la madre e il fratello per cacciare l’intruso, rifiuta di farlo ed entra in casa. Probabilmente per convincerlo ad andare via. Una vicina di casa testimonierà infatti di averle sentito dire: “Vattene, non farmi incazzare stasera”. E di aver udito il G. risponderle: “Giacchè devo andarmene, ricevite queste!”.
Ciò che ricevette furono due coltellate, che la fecero stramazzare al suolo e morire dopo pochi minuti.
In un primo momento sembrerà che al fatto, stranamente per un abitato così densamente popolato e per una comunità in cui tutti partecipavano alle vicende di tutti, non avesse assistito nessuno ad eccezione della nonna, e solo un vicino, Giuseppe Venezia, accorso subito dopo alle grida di Nunzia, ne potè raccogliere le ultime parole: a colpirla era stato “Vincenzino nipote a Felice Tusch”. Ma undici giorni dopo, il 15 maggio, un’altra vicina, la trentanovenne vedova Maria Emanuela Natale, deciderà di raccontare quel che aveva visto essendo in lei “prevalso il sentimento della giustizia ad ogni altra considerazione”. Dirà questa che verso le diciotto aveva visto Nunzia A. appoggiata al muro di sostegno della casa che, sebbene non richiesta “quasi perchè io non avessi trovato a ridire su quel solitario suo trattenimento, disse spontanea a me rivolta “evvi Vincenzo, il nipote di Felice Tusco, in casa mia, e non se ne vuole andare”. Ciò saputo, la donna ritorna alle proprie faccende, ma circa un quarto d’ora dopo, sentendo gridare, si affaccia alla porta dei vicini e vede Nunzia e Vincenzo, in piedi, a un passo di distanza l’uno dall’altro, che si guardano in cagnesco, mentre la nonna è seduta fuori . Nunzia ha le mani libere, di Vincenzo non può dire altrettanto in quanto le ha sotto il mantello, ma all’ingiunzione di andarsene fattagli dalla ragazza risponde – come già dichiarato dalla vicina che aveva solo ascoltato il loro alterco – dicendo “giacchè devo andarmene, riceviti questo”. Ed in così dire egli portò la mano sulla persona dell’A., a guisa di corpo vibrato. Immediatamente l’A., scostando il lembo della camicia che le covriva la mammella sinistra, e vistasi sgorgare il sangue, disse: “Gesù, che mi hai fatto”. Indi, come invasa da svenimento, si appoggiò al vicino letto, ma le forze finirono di mancarle e cadde a terra come corpo morto. Qui la M. (la nonna, ndr), prese a chiamarla di nome “Nunzia, Nunzia” e non vedendosi risposta si fece a cercarla per l’angusta stanza a tentone, giacchè quasi cieca, finchè non urtò di piede sul corpo della nipote giacente a terra; ed a tal punto, comprendendo ciò che era avvenuto dalla giacitura, dal sangue toccato, nonchè da quanto la stessa nipote tuttora viva ebbe a dirle, diede in pianto e grida strazievoli, le quali mano-mano fecero accorrere molta gente: essa accorse ed io rincasai trovandomi in preda a un forte tremolio per la scena di sangue a cui avevo assistito.”
A notte avanzata, “per non suscitare clamori”, il cadavere della diciottenne sarà trasportato nella camera mortuaria annessa alla Chiesa Madre e sottoposto ad autopsia. Denudata delle vesti intrise di sangue e “già ridotte a brandelli per vecchiaia”, il medico Antonio Cifarelli constaterà che la giovane aveva riportato due profonde lesioni da coltello, una all’anca sinistra e una seconda, fatale, al cuore. Precisamente al ventricolo destro “spaccato in tutto la spessezza della sua parte anteriore”. Il suo organismo, aggiungerà, era ben sviluppato “salvo un’evidente scarsezza di pannicolo adiposo sottocutaneo, dovuta probabilmente agli stenti della vita e alle privazioni”.
Era dunque Nunzia una povera ragazza. Di una povertà inscritta nel magro organismo e sottolineata dalle vesti a brandelli che l’accompagneranno fino alla tomba e dalla sua semplicità di spirito.
Ciononostante aveva sperato e sognato di “sistemarsi”, nientemeno che con Vincenzino, sarto e nipote di Felice Tusch.
E proprio questa illusione l’aveva perduta. Ma come si era permesso?