Gli echi della manifestazione di Roma organizzata dalla CDL segneranno per qualche tempo il linguaggio e la mitografia del nostro sistema politico. La valanga di commenti non rende giustizia a un’adeguata analisi del fenomeno. Ecco perché.
L’Italia politica non è divisa tra destra e sinistra, quel che divide il Paese è un abisso sempre più incolmabile tra classe politica (più in generale classe dirigente) è cittadini comuni, elettori, italiani. Populismo e demagogia (che nel pensiero politico classico sono procedure della “tirannide”) possono solo mascherare questo dato di realtà e al tempo stesso certificarlo, insieme al grado ormai evidente di democrazia “appannata”, addomesticata e immobile che chiamiamo “declino”. Alla demagogia, intesa come “arte di arrangiarsi” da parte delle forze di governo (non importa quali), e al populismo, inteso come procedura di raccolta del consenso da parte delle forze di opposizione (non importa quali), non vi sono alternative là dove la classe politica ha realizzato, per effetto della sua immobilità, di un generalizzato conflitto di interessi e di una completa occupazione delle “pubbliche” (nel senso che appartengono e sono al servizio di tutti) istituzioni, un permanente, inestricabile stato di confusione tra servizio pubblico e interessi privati. Ed è questo, solo questo, che divide il Paese, ne minaccia l’identità, ne segna il declino democratico e civile.
E tuttavia questo fenomeno, la cosiddetta “anomalia” italiana, non ha nulla di nuovo. Non occorre essere storico di professione per coglierne le radici lontane, profonde e strutturali: bastano il clima, le voci, le facce, il linguaggio, i riti mediatici, il cerimoniale.
Demagogia e populismo sono, per molti aspetti, nel DNA della Repubblica e della sua classe politica. Nel corso delle quindici legislature della Repubblica, si sono succeduti 54 governi, ma 19 primi ministri hanno governato per 38 anni e i più di 4.500 incarichi di governo (ministri e sottosegretari) sono stati attribuiti a poco meno di 1.200 persone (nella quasi totalità parlamentari). L’Italia della Guerra fredda, un paese a sovranità (e democrazia) limitata, ha realizzato una formidabile stabilità della classe politica e dirigente la quale, a sua volta, ha fatto dell’instabilità l’arte di governo e della debolezza di ciascun governo la forza del sistema e la ragione dell’immobilismo di tutto il ceto politico dentro e oltre i partiti. Per effetto di questa lunga deriva di vecchi e nuovi (in realtà “costanti”) equilibri, la gestione della cosa pubblica non è stata affidata al confronto ideologico, non al principio dell’alternanza tra forze sociali in competizione, né alla selezione e rinnovamento della classe dirigente. Il deficit di democrazia si è progressivamente trasformato in un deficit di cultura politica e nel tentativo di conciliare ciò che conciliabile non è: lo “stato provvidenza” (l’uso delle istituzioni come strumento per prevenire e nascondere la spinte competitive del mutamento) e lo “stato tolleranza” (l’uso del potere per consentire apparenti margini di libertà rispetto ai vincoli istituzionali). Il primo ci ha portato a un deficit pubblico i cui effetti sono ancora tutti da misurare sulle future generazioni, il secondo sta infrangendo i confini tra legalità e illegalità nel comune sentire.
E così siamo arrivati sull’orlo dell’abisso: il dibattito demenziale sulla finanziaria, l’appello populista di piazza San Giovanni, lo scandalo Mitrokhin, quello Telcom, Alitalia, Parmalat, Cirio… e a una classe politica che, alla ricerca di nuovi equilibri, che giustifichino la sua permanenza al potere, non sembra più in grado di governare il Paese se non in forza del suo declino.
Ci vuol altro che l’appello alla modernizzazione e alla transizione del sistema politico per riguadagnare la china!
La democrazia, tanto per ricordarlo, è quel sistema di civile convivenza che cerca di conciliare due insopprimibili e opposte tensioni dell’animo umano: la ricerca di uguaglianza e la costante aspirazione alla libertà. È una alchimia politica, non necessariamente complicata, ma certo complessa; e questa alchimia si fonda su un comune sentire (idee, valori, virtù) che intreccia interessi privati e interesse generale (quello di tutti) in un’etica della responsabilità individuale che in politica si chiama “moderazione”. Montesquieu indicava, nella “moderazione” appunto (e cioè nella capacità di moderare i propri privilegi e i propri interessi personali), il carattere specifico di una classe dirigente. Ed è questo deficit di moderazione che spinge la nostra classe politica alla perversa dinamica demagogia/populismo. Di più. Questo deficit di moderazione e di cultura politica si sta ormai trasformando in una battaglia di retroguardia della maggior parte della nostra classe dirigente contro la realtà e contro il futuro del nostro stesso Paese.
Le sfide che il modo attuale ci impone si sono tradotte in un immobilismo ormai ventennale, in una guerra di resistenza all’innovazione che ci distanzia dai grandi processi di trasformazione in atto a livello mondiale.
A dire oggi la loro, dovrebbero essere tutti coloro che sono insofferenti del presente, senza più nostalgie del passato, consapevoli che la moderazione è un’opzione rivoluzionaria e che l’innovazione (l’accettazione del nuovo e la capacità di voltare pagina) è la cultura del nostro tempo. Pochi o tanti che siano sono questi i “nuovi italiani” ai quali compete di spiegare con le parole e dare testimonianza con l’impegno del fatto che il nostro futuro “reale” (non quello remoto, né quello indicativo) ha cambiato direttrice di marcia rispetto al passato: dalla sequenza potere, politica, sviluppo che ha retto il ciclo della modernità, tutto il mondo (e il mondo di tutti) è approdato a quella che intreccia collaborazione, responsabilità, organizzazione. Sono queste le precondizioni e i pilastri della nuova democrazia, una fabbrica ben più vasta di Piazza San Giovanni.