Alla fine il cigno nero, l’evento isolato e inaspettato, l’imprevisto totale[i], si è materializzato: il papa si è ritirato dichiarandosi non più in grado di guidare la Chiesa.
Ritengo che un gesto di così dichiarata e umana fragilità meriti rispetto e comprensione, ma non mi illudo che ci siano. In un mondo come il nostro ai perdenti si riserva al più compassione. Non dovrebbe essere così in tempi in cui la rapidità dei cambiamenti e l’avvilupparsi di culture e storie diverse fanno sì che incertezza e confusione abbiano guadagnato nella vita di ognuno spazi impensati fino a una ventina di anni fa e a tanti possa capitare, in vari modi, di trovarsi fra i perdenti, ma tant’è.
Infantilmente, a tutti, più o meno, piace credere che il mondo sia guidato da saggi capi ( politici, economici, religiosi) impegnati nella ricerca tesa ad assicurare a tutti una vita migliore. La nostra debolezza, la debolezza dell’uomo-massa, che sente di non contare nulla, porta poi ad attribuire a tali figure capacità e forze sovraumane. La ritirata del papa, il capo dell’istituzione che per tanti secoli ha dato plasticamente parvenza di realtà a tali credenze, ci dice che si trattava, appunto, di un’illusione e questo ci fa sentire più deboli e soli.
Non è un caso che papa Ratzinger abbia scelto per annunciare la sua decisione la vigilia della quaresima e fatto coincidere la sua ultima presenza in pubblico con il mercoledì delle ceneri, il giorno in cui la Chiesa ricorda ai credenti la precarietà dell’esistenza terrena.
Al tema della rinuncia e della rinascita, simboleggiata da questa ricorrenza, il grande poeta T. S. Eliot, statunitense di nascita e inglese di adozione, dedicò nel 1930 – un anno di crisi e smarrimento come quelli che stiamo vivendo – il poema “Mercoledì delle ceneri” di cui si propone qui la prima parte nella traduzione di Roberto Sanesi (TS Eliot, Opere 1904-1939, Classici Bompiani, 2001).
I. Perch’io non spero più di tornare
Perch’io non spero più di ritornare
Perch’io non spero
Perch’io non spero più di ritornare
Desiderando di questo il talento e dell’altro lo scopo
Non posso più sforzarmi di raggiungere
Simili cose (perché l’aquila antica
Dovrebbe spalancare le sue ali?)
Perché dovrei rimpiangere
La svanita potenza del regno consueto?
Poiché non spero più di conoscere
La gloria incerta dell’ora positiva
Poi che non penso più
Poi che ormai so di non poter conoscere
L’unica vera potenza transitoria
Poi che non posso bere
Là dove gli alberi fioriscono e le sorgenti sgorgano, perché non c’è più nulla
Poi che ora so che il tempo è sempre il tempo
E che lo spazio è sempre ed è soltanto spazio
E che ciò che è reale lo è solo per un tempo
E per un solo spazio
Godo che quelle cose siano come sono
E rinuncio a quel viso benedetto
E rinuncio alla voce
Poi che non posso sperare di tornare ancora
Di conseguenza godo dovendo costruire qualche cosa
Di cui allietarmi
E prego Dio che abbia pietà di noi
E prego di poter dimenticare
Queste cose che troppo
Discuto con me stesso e troppo spiego
Poi che non spero più di ritornare
Queste parole possano rispondere
Di ciò che è fatto e non si farà più
Verso di noi il giudizio non sia troppo severo
E poi che queste ali più non sono ali
Atte a volare ma soltanto piume
Che battono nell’aria
L’aria che ora è limitata e secca
Più limitata e secca della volontà
Insegnaci a aver cura e a non curare
Insegnaci a starcene quieti.
Prega per noi peccatori ora e nell’ora della nostra morte
Prega per noi ora e nell’ora della nostra morte.
[i] L’espressione è tratta da Taleb Nassim N. – Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita.