Quando le tradizioni che affondano le radici nella cultura contadina diventano oggetto di business che ne svuotano completamente dei contenuti.
Oggi cinque gennaio, vigilia dell’Epifania. Domani i bambini si sveglieranno e correranno a guardare se appesa al camino troveranno la calza piena di colorate caramelle che la vecchietta ha lasciato loro durante la notte. Cosi almeno doveva essere e cosi è stato fino a qualche decennio fa quando ancora anche nelle famiglie la Befana era attesa come un evento di una certa rilevanza e che chiudeva il cerchio delle trascorse feste natalizie. Per circa un mese, a partire dalla sera dell’Immacolata, il paese intero si era immerso in una atmosfera di grande allegria; le pettole, carte tagliate (non cartellate)e porcelli avevano imbandito le nostre tavole e gli armonici suoni delle fisarmoniche mescolati a quelli cuposi delle cupa cupa avevano allietato le nostre nottate con interminabili canti e balli intervallati da un boccale di vino e da una “capo” di salsiccia appena fatta. Un mese intenso di divertimento collettivo, al quale però bisognava dare un forte segnale di interruzione per ricordare a tutti che il divertimento non può sostituirsi alla sobrietà della vita quotidiana.
Il mondo contadino, semplice ma anche molto riflessivo aveva scelto il cinque gennaio per dare questo segnale forte di ritorno alla normalità; lo aveva fatto nel modo in cui più si riconosceva; aveva trasferito in quella giornata emozioni e sentimenti che li accompagnava durante tutto l’anno; sentimenti anche pregiudizievoli se vogliamo ma che erano fortemente insiti nel vivere quotidiano: un misto tra superstizione e rispetto per ciò che era una legge non scritta ma tramandata dai padri.
Nasce cosi la figura del cucibocca; un personaggio non fiabesco ma reale, il cui compito era quello di riportare tutti alla sobrietà della vita quotidiana.
Si aggirava nel paese mezzo spento in totale solitudine; non bussava alle porte e non chiedeva regali; non portava in testa un disco di canapa da frantoio ma un semplice copricapo da pastore (“ a v’scedd”); vestito di cenci portava con una mano un paniere con dentro un gomitolo di spago, una sugghia e un grosso ago da maniscalco, mentre con l’altra trascinava una grossa e rumorosa catena.
Tutto qua. Il rumore della catena che si avvicinava era il segnale per il vicinato che era giunta l’ora di ritirarsi nelle proprie abitazioni, la festa era finita, gli usci si chiudevano senza che occhi indiscreti violassero l’intimità di quel personaggio che continuava il suo solitario cammino per le stradine del Paese.
Sono passati alcuni decenni dalla scomparsa di quella tradizione e oggi, aimè, assistiamo ad una rivisitazione riveduta e corretta; li vediamo scendere non più solitari ma in gruppi, accompagnati da squilli di trombe in fastosi e allegorici cortei dal sapore carnevalesco; strano mi vengono in mente le visite che faccio ad Assisi, la città del poverello, dove tutto ormai ci ricorda tranne che la povertà; la sobrietà cui loro dovevano riportare e per la quale erano stati pensati è stata sostituita da una ulteriore forma di divertimento. Nulla contro il divertimento per carità, non fosse per il fatto che in nome di una tradizione della cultura contadina la collettività ci rimette diverse migliaia di euro e per una forma di manifestazione che ne svuota i contenuti per cui era nata.