Visto l’interesse suscitato dall’articolo sulle lettere dei soldati presentiamo qui un breve saggio, già pubblicato su “Mondo Basilicata” n. 8/2005, sullo stesso tema ma che ha per protagonisti soggetti diversi: i nostri emigrati.
“A più chiare lettere”
Appunti sulla corrispondenza dell’emigrazione
Ogni tanto il nostro paese si guarda allo specchio e trovandosi meno bello e moderno di quanto crede sembra stupirsi. Come nella canzoncina sui bambini che “fanno oh!”. E’ ciò che è accaduto, alcuni mesi fa, con la diffusione dei dati di un’indagine sull’analfabetismo.
Conoscendo anche solo superficialmente il sud, non ci si dovrebbe meravigliare che dalla ricerca risulti che la Basilicata ha il 13,8% della popolazione analfabeta e sia seguita di stretta misura dalla Calabria (13,2%), dal Molise (12,2%), dalla Sicilia (11,3%) e dalla Puglia (10,8%).1 Né dovrebbe sorprendere che le stesse regioni siano fra quelle con il più alto tasso di laureati.
Gli specialisti chiamano questa contraddizione “tenaglia educativa” e invitano a esaminare i dati sulla base delle fasce d’età, è forse questo un modo elegante per dire che molti degli attuali laureati provengono da famiglie con genitori analfabeti o quasi.
In una rivista come questa sarà il caso di ricordare che la rottura con il passato fu voluta proprio da quei genitori che emigrarono, anche, per pagare gli studi ai figli. E fu nelle baracche e nei cantieri tedeschi, svizzeri, francesi o del nord Italia più che nei palazzi del potere democristiano che negli anni sessanta si decise la prima leva di massa di laureati di origine contadina. Almeno noi, i cinquantenni per primi salvati dalla miseria dell’analfabetismo, questo non dovremmo dimenticarlo mai.
Se quello cui sopra si è accennato è stato il cambiamento più radicale, per quanto indiretto, prodotto dall’emigrazione, non bisogna dimenticare che, fin dal suo primo manifestarsi, l’esodo determinò un diverso rapporto fra la popolazione e saperi di base come la scrittura e la lettura.
Ben si comprende che, fino a quando l’intera vita di un individuo si svolgeva nell’ambito del paese d’origine, la mancanza d’istruzione non fosse un’esigenza molto sentita, ma con l’emigrazione il bisogno di alletterarsi si porrà come un’esigenza concreta e acquisterà un valore pratico. Per questo quando, dopo la prima guerra mondiale, in alcuni paesi lucani si apriranno corsi serali per adulti, si avranno risultati sorprendenti per frequenza e profitto.
Ce ne offre testimonianza, fra gli altri, il giovane Ernesto Rossi, uno dei futuri leader del movimento antifascista “Giustizia e libertà” che, per conto dell’Associazione Nazionale degli Interessi del Mezzogiorno italiano (ANIMI) voluta da Giustino Fortunato e Umberto Zanotti Bianco, era stato inviato in Basilicata col compito di creare localmente una rete che promuovesse l’educazione degli adulti.
Purtroppo però le amministrazioni comunali erano spesso indifferenti, quando non del tutto ostili, alla scolarizzazione dei contadini. E quando Rossi si stupisce per l’atteggiamento dei sindaci e segretari comunali, cui inutilmente si rivolge per le pratiche di finanziamento statale – si badi bene – dei corsi, Gaetano Salvemini gli consiglia di aiutare le amministrazioni cercando « di diventare il Segretario dei comuni per gli affari scolastici. I segretari comunali sono ovunque, laggiù, ignoranti e bricconi: pensano solo alle elezioni. Ma se alcuno si offre di fare il loro lavoro, lo lasciano fare ». 2
Quanto ai sindaci, consiglia ancora lo storico pugliese, sarà meglio puntare su quelli dei « comuni nuovi, anche se militanti con bandiera scarlatta o bolscevica. Qui troverai un desiderio di novità, incapace di realizzarsi per ignoranza. Nei comuni vecchi c’è, oltre all’ignoranza, la voglia di non vedere cose nuove ».
Era un buon consiglio.
Peccato che le amministrazioni socialiste nella regione fossero pochissime – tre o quattro in tutto – e che i tempi per sviluppare iniziative di emancipazione dal basso fossero ormai scaduti anche qui. Siamo, infatti, nel 1921 e il fascismo è ormai all’attacco del “sovversivismo” rappresentato non solo dai socialisti, ma anche dai gruppi nittiani più avanzati.3
In mancanza dell’intervento di stato e comuni, il bisogno di comunicare che la separazione dal nucleo d’origine aveva creato con l’emigrazione faceva prendere carta e penna anche a chi non era andato a scuola.
A conclusione di una straordinaria lettera di un’emigrata alla sua “signora” comare, ad esempio, si legge:
Cara comare, ti prego quando scrivete scrivete a più chiare lettere [caratteri, grafia,] [per]ché noi non le capiamo in quanto non siamo avvocati.
Voglio dire: noi ci arrangiamo a leggere e a scrivere [solo ] un po’. Scusami, cara comare,se vi dico questo, [ma è] perché le vostre lettere le devo far leggere da estranei.
Vi è nel riferimento all’arrangiarsi contenuto in questa citazione, piena conferma all’osservazione fatta in studi specialisticisecondo cui gli emigranti ricorrevano alla scrittura pur avendo coscienza della propria insufficiente padronanza del mezzo. 4
E quando proprio non si sapeva farlo se ne provava vergogna e si cercava in qualche modo di nasconderlo. Poteva bastare allora una penna che spuntava dal taschino della giacca per camuffarsi da istruito, ma c’era chi esagerava mettendone di più e finiva col tradirsi. Oppure bastava fingere di leggere, ma anche in questo caso ci si espone a qualche rischio.
Una storiella di paese, sentita raccontare da chi scrive tanti anni fa, aveva come protagonista un emigrante analfabeta che,
durante il viaggio in nave, era stato sorpreso a “leggere” un giornale a rovescio. A chi glielo aveva fatto notare, l’interessato avrebbe allora risposto che se uno sapeva leggere, poteva farlo di dritto e di rovescio.
A noi ragazzi sembrava quella poco meno che una prova del genio della gente del nostro paese, ma probabilmente ogni paese lucano o italiano poteva vantare episodi altrettanto gloriosi.
Oltre che a scopo pratici, la corrispondenza fra “partiti e rimasti” serviva a scongiurare il pericolo che l’evento migratorio si trasformasse in perdita dell’intero “mondo” (famiglia, amicizie, modi di sentire) di cui l’individuo era stato parte fino allora.
In molte lettere si sente il timore di essere cancellati da quel mondo, quasi che non essere “pensati” da chi è rimasto in paese, equivalga alla perdita dell’esistenza precedente alla partenza.
Assunta mia – scrive alla sorella un’emigrata in Argentina – ne sono completamente afflitta per il tuo modo di procedere.
Lo sento bastantissimo che nella vita non abbiamo altro che scambiarci qualche parola di conforto e ricordarci di tanto affetto e tanto bene che si nutrono i nostri cuori pure da lontano, che bene io lo so che tu mi pensi io lo stesso e senza poi scriverci una linea.
Sto molto male, smetti questo silenzio verso di me che ne risento enormemente e vivo sempre con la testa e l’animo scosso e di palpiti sin da quell’ora che sono partita da costì, sapervi tutti da me lontani son dolori atroci…Perciò dico che quello che ci rimane e [è] scriverci più spesso. […]
Cara Assunta mi perdonerai se ti riprendo ché voglio l’unico mio conforto [che] sono i [gli] scritti.5
Non ha qui importanza sapere perché Assunta non corrisponda in modo soddisfacente al rapporto desiderato dalla
sorella. Questa, forse, nelle ore vuote di clienti – qui c’è una crisi barbara, scrive in un altro passaggio della lettera – nella sua “Peluqueria y Merceria”, a Buenos Aires, attinge dai fotoromanzi, che non mancano mai da un parrucchiere o barbiere che si rispetti, le espressioni un po’ languorose di cui sopra.
Capitava, piuttosto frequentemente, che il rapporto fra emigrati e ambiente di provenienza desse luogo a incomprensioni o a vere e proprie tensioni. A crearle potevano essere concreti conflitti d’interesse o motivi più sfuggenti e indeterminati.
A tale riguardo bisogna considerare l’ambivalenza dei sentimenti che potevano crearsi fra chi aveva fatto la grande scelta e chi restava a casa.
Si trattava di un’ambivalenza che poteva trovare appiglio in molte cause. Il “gesto separatorio” del partire era un muto rimprovero all’inerzia di chi restava a casa; chi restava si aspettava aiuti, ma a volte l’emigrato non poteva darne, né voleva far sapere che le cose gli andavano male; oppure, indurito da umiliazioni e sacrifici patiti per raggiungere un qualche enessere, non era disposto a darne. Chi emigrava, infine, o diventava più conservatore di chi restava a casa o affrontava una spesso problematica integrazione rompendo i ponti con la mentalità del paese d’origine.
Classiche erano le liti per questioni ereditarie fra fratelli.
Ecco un caso che riguarda tre sorelle, una, residente a Brooklin, e due rimaste al paese. Scrive l’emigrata a una delle due a proposito dell’altra sorella che occupa la casa paterna:
Essa la [l’ha, ndr] tenuta sette anni e non o [ho] avuto nemmeno un soldo e adesso voglio essere pagata e fatemi sapere per quando avete fatto lafferta [l’offerta] che essa non [ha] avuto nemmeno coraggio di pagarmi 3 soldi al mese la madonna.6
Tutto lascia credere che la madonna qui chiamata in causa non fosse la sorella.
Madonne a parte, non per caso si sono citate due scritture femminili. Era infatti quasi sempre alle donne che toccava scrivere per l’intera famiglia, sia nei luoghi d’emigrazione sia, in risposta alle lettere dei congiunti, in quelli di residenza.
E questo accadeva nonostante le donne fossero meno scolarizzate dei maschi, come dicono le statistiche.
Forse perché le donne lavoravano soprattutto a casa, vi stavano comunque di più a casa e avevano più tempo e voglia d’imparare.
La prevalenza femminile nei saperi aperti agli analfabeti è d’altronde attestata dalle nostre parti nell’espressione fare i conti alla femminina, che era appunto il sistema di calcolo usato da chi non aveva nessuna famigliarità con carta e penna.
Dove imparavano? All’esterno del circuito scolastico era proprio a loro che si offrivano le maggiori opportunità. Ad esempio dalle sarte, le “maestrine”, presso le quali quasi tutte facevano un periodo di apprendistato, oppure frequentando la parrocchia. Più in generale erano le donne che creavano e mantenevano, più e meglio degli uomini, le relazioni sociali. Per questo, quando si pose il problema di tenerle in vita mediante la scrittura, furono per lo più loro a “specializzarsi” scrivane.
E anche quando non si possedeva l’arte in proprio toccava, comunque, alla donna dettare ciò che si voleva far sapere al congiunto emigrato. Comprensibilmente, data la mentalità dei luoghi, la donna che doveva dettare una lettera si rivolgeva a un’altra donna.
Spesso chi sapeva scrivere finiva per farlo per la vasta parentela di parenti, amici, vicini di casa, fino a diventare di fatto in molte situazioni locali una pubblica scrivana. In questo modo la madre di Rocco Scotellaro contribuiva al magro bilancio famigliare.
Ed è una ragazza a scrivere, o meglio a far finta di farlo, per la madre dolente presentata dai fratelli Taviani nella trasposizione cinematografica della novella pirandelliana “L’altro figlio”.
1 Cfr. Aprileonline n. 49 del 14-11-2005.
2 Lettera di Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi del 6-11-1921, in “Nella regione più infelice”, supplemento al n. 9/12 1989 della rivista “Basilicata”.
3 Cfr. C. Magistro Nitti. Lettere lucane, in Bollettino Storico della Basilicata, n. 19 del 2004.
4 A. Gibelli e F. Caffarana, Le lettere degli emigranti, in “Storia dell’emigrazione italiana. Partenze”, vol. I,Roma 2001, p. 564.
5 Lettera da Buenos Aires dell’8-12-1930 di Elvira S.C. alla sorella Assunta residente a Pomarico. Questa e l’altra lettera che si citerà mi è stata cortesemente fornita da Pietro Varuolo, di Pomarico, che qui ringrazio.
6 Lettera da Brooklin del 27/6 1893 di Porzia R. alla sorella residente a Pomarico nella quale si critica l’atteggiamento scorretto di Risabetta (Elisabetta), la terza sorella.
Qui è scaricabile il pdf del saggio:
A più chiare lettere – Appunti sulla corrispondenza dell’emigrazione