In giornate come questa si dovrebbe riflettere sulle grandi questioni della vita.
Propongo la lettura di questo bell’articolo dello scrittore D’Avenia sul difficile rapporto fra generazioni
Nella città in cui vivo alla velocità di una bicicletta incontri segni che allo sguardo a motore sfuggono. Così su un ponte costellato da scritte murali, tumulto di amori, rabbie o vandalismo espressivo, ho letto: «il futuro non è più quello di una volta». Ho immaginato il/la giovane che, complice la notte, ha verniciato il suo tormento, come nelle innumerevoli email di persone che hanno letto il mio romanzo: in cosa posso credere e giocarmi la vita? Il presente, che è l’unica cosa che ci è dato vivere in spirito e carne, è in realtà il luogo in cui si realizza ciò che ci rappresentiamo come futuro. Se il futuro sparisce, evapora anche il presente. Un bambino senza l’abbraccio e la cura dei genitori non interiorizza mai il futuro come promessa: il mondo per lui sarà una selva oscura senza uscita, il tempo un sicario pronto a eliminarti.
Lo stesso accade con i ragazzi, con i quali sto in classe, e in generale con i giovani. Solo se percepiscono lo sguardo promettente di qualcuno che, appartenendo alla generazione precedente, fa da mediatore tra il futuro e il presente fragile in cui si trovano, sono disposti a mettere in gioco la loro libertà sulle rotte della vita e navigare lontano dai porti sicuri delle mura casalinghe, affrontando la tempesta e la bonaccia, alla ricerca di quel porto segnalato sulle carte geografiche del desiderio: l’immagine di futuro interiorizzata. Ma se il futuro non ha immagine, se sparisce lo spazio ideale in cui i sogni si possono realizzare, svanisce l’aspetto sognante della realtà, necessario ad affrontare fatiche e ombre del presente quotidiano. Non sto parlando delle illusioni in cui ci rifugiamo per vincere la frustrazione dei nostri limiti e sconfitte, ma di quella reale possibilità di sognare, cioè di sperare nel futuro, per il semplice fatto che ognuno di noi c’è ed è il sogno di qualcun altro.
La libertà è rendersi consapevoli del fatto che ogni uomo è creato per essere un nuovo inizio. Di cosa? Lo si scopre solo strada facendo. Viviamo nella storia e solo il presente, passo dopo passo, ci dirà quale è stato il nuovo inizio a cui abbiamo dato corso. Solo se so che sono già adesso il nuovo inizio di qualcosa che avverrà domani, tirerò fuori le risorse che solo il futuro sa evocare e provocare al presente. Altrimenti mi accontenterò di una vita in difesa, in cerca di sicurezze individualistiche, a costo di calpestare altri disillusi. I ragazzi manifestano, alla ricerca del futuro perduto e lo cercano anche quelli che non manifestano. I ragazzi rispondono a Saviano come ad un salvatore («Siamo ragazzi normali, senza un futuro, pieni di rabbia», «Daccela tu l’alternativa, scendi in politica e dimostraci che il miracolo di cambiare davvero questo Paese è possibile»). I ragazzi ringraziano il mite Napolitano che li ascolta nel suo studio («è l’unico che parla con noi»).
I ragazzi cercano ciò che la generazione che li precede non offre: la mediazione di un padre. Così emergono padri incerti e provvisori, prometei simbolici più o meno pittoreschi che rubano il fuoco del futuro agli dei: da Assange a Mourinho, e quel che sta in mezzo. Il futuro non esiste più perché i padri si sono nascosti. Il padre è il mediatore del futuro, colui che è capace di provocare la nostalgia di futuro di cui ogni giovane ha bisogno per affrontare il presente. Padri sono i padri di famiglia, spesso assenti; padri sono i maestri a scuola e all’università, spesso padrini; padri sono i politici, spesso padroni; padri sono gli uomini delle agenzie educative (dalla chiesa alla tv), spesso patrigni. Padri sono tutti coloro a cui sono affidate le vite di altri, che padri diventano se si pongono al servizio di quella vita che non è loro, ma è loro affidata e di cui dovranno rendere conto alla storia.
Se i padri non servono le vite dei figli, ma le divorano come Cronos, cioè le controllano o ignorano, i figli diventano burattini o orfani. Che futuro ha un burattino? I fili. Un orfano? La fuga. Quando mio padre mi lanciava in aria da bambino, mia madre, impaurita, gli chiedeva di mettermi giù. Lui la rassicurava e continuava. La madre ha il compito di tenere ancorato il figlio alla terra, il padre invece lo lancia verso le stelle, verso l’ignoto, verso la paura di cadere, ma le sue braccia lo aspettano per ricordargli che il futuro è un’incognita, ma si cade tra braccia sicure, e la paura della vertigine si muta in risata. Ma se il padre sparisce, il duro suolo fermerà la caduta dei figli e non resterà che il pianto inconsolabile di un inizio fallito. I ragazzi manifestano perché i padri si manifestino e liberino il futuro e i sogni che contiene.
Ogni ragazzo può sognare perché è sognato. Ogni uomo può sperare perché è atteso. Ho la fortuna di avere un padre: mio padre. Ho avuto la fortuna di avere grandi padri: Mario Franchina, professore di lettere, Padre Pino Puglisi, professore di religione del mio liceo, Paolo Borsellino, vicino di quartiere. Da loro ho ricevuto il futuro e quindi il presente. Abbiamo bisogno di padri che facciano più strada di quanta possiamo farne noi per raggiungerli. Padri tornate, noi non smetteremo di cercarvi e di darci da fare per essere un nuovo inizio.
Alessandro D’Avenia
su La Stampa del 25 dicembre 2010