Seguendo un procedimento tipico del giornalismo d’inchiesta di quegli anni, Nicola Caracciolo, dopo aver visitato Montescaglioso e riferito dei suoi problemi e degli stati d’animo più diffusi, cerca di capire come se la passano i suoi emigrati a Torino.
La Torino di allora è ancora una città che si sveglia, mangia e va a dormire secondo gli orari scanditi dalle sirene della Fiat e un operaio Fiat, Carmelo Parisi, è preso a simbolo dei montesi che hanno fatto con successo il salto di secoli cui si accenna nel titolo dell’articolo. Ci ha messo anni, ma alla fine ce l’ha fatta ad entrare dalla porta principale nella torinesità del Fiatnam. Probabilmente ha dovuto imparare – di lì a qualche anno non lo farà più nessuno – l’ostico dialetto di una città che il dialetto usa principalmente per escludere e misurare la volontà d’integrarsi dei “napuli”. Probabilmente la sua assunzione è stata favorita dalle buone referenze che su lui sono arrivate dal paese da parte del maresciallo dei carabinieri, del parroco, del segretario della DC. La Fiat non vuole sovversivi, ne ha già troppi fra i nati sotto la Mole e persino fra i muntagnin giunti dai paesi e dalle province vicine e a questo scopo ha creato una rete di informatori, interni ed esterni agli stabilimenti, che procede a schedature di massa dei suoi operai. Per isolarli aveva creato nei primi anni cinquanta dei reparti confino che erano stati ribattezzati Officine Stella Rossa diventando un mito per gli operai più politicizzati.
L’assunzione di tanti meridionali avrebbe dovuto anche stemperare i conflitti salariali, ma spesso così non fu poiché dopo pochi anni di fabbrica furono in tanti i meridionali che parteciparono attivamente alle lotte sindacali. Nei fatti di Piazza Statuto del luglio 1962 che segnarono violentemente il risveglio dei movimenti di lotta prodotto dalla sconfitta elettorale dell’aprile 1948, erano giovani operai meridionali la metà degli arrestati per l’assalto alla sede della Uil che s’era venduta alla direzione Fiat.
Di queste questioni nell’articolo non c’è traccia e anche il problema del razzismo verso i meridionali, assai vivo in quegli anni, è trattato in toni morbidi. Né si accenna al motivo strutturale alla base del razzismo: l’abnorme crescita provocata dall’emigrazione interna che portò la popolazione Torino dai circa 700.000 abitanti del 1951 a 1.200.000 del 1971 senza che crescessero in proporzione le abitazioni, i posti letto negli ospedali, le aule scolastiche.
Da Montescaglioso alla metropoli industriale: un salto di secoli
L’immigrato giunge a Torino. Questi sono i suoi problemi
Carmelo Parisi, 36 anni, operaio alla Fiat, dichiara: «Bene o male, a integrarsi ce la fanno tutti» – Ma prima quanti sacrifici, quante umiliazioni – Le tremende difficoltà economiche degli inizi, prima di trovare un posto decoroso; le incomprensioni dei compagni di lavoro e dei vicini, che ti chiamano “napoli” E infine, costante, il problema della casa, l’insufficienza delle scuole, dei trasporti, dell’assistenza sanitaria
Via Madama Cristina 20. Qui abitano molti degli immigrati giunti da Montescaglioso. Come vivono i mille « montesi » emigrati a Torino? É certo che Torino rappresenta un punto d’arrivo obbligato per molti di coloro che lasciano Montescaglioso alla ricerca dì lavoro (su diecimila abitanti, quattromila sono emigrati). Vado a trovare in un appartamento di via Madama Cristina, Carmelo Parisi, operaio alla Fiat. É un personaggio importante nella diaspora dei « montesi »: è stato uno dei primi disoccupati di Montescaglioso ad arrivare qui ed essere assunto alla Fiat, ed in seguito ha aiutato decine di compaesani a trovare lavoro e alloggio a Torino. Lo stabile è anzi diventato un piccolo alveare di famiglie collegate tra loro all’uso meridionale: accanto a Carmelo, sposato con figli, abitano i genitori e una sorella; sotto c’è il cognato con un’altra sorella.
Nella tromba delle scale scorre una fune appesa a una carrucola, con legato un paniere: serve per tirar su le spese. Gli usi dei villaggi meridionali sono duri a morire: mi viene in mente «Little Italy» a Boston, che ho visitato pochi mesi or sono. É abitata da discendenti dei contadini del Sud che tre generazioni or sono andarono negli Stati Uniti: anche lì la gente è più chiassosa dei vicini, le famiglie si tengono strettamente collegate, l’insieme ha molto «colore». Per decenni gli amministratori comunali tentarono di spiantare questo quartiere così estraneo alla mentalità anglosassone; ora alcuni dei più celebri urbanisti americani si sono accorti che, nella crisi generale delle città americane, è una delle poche località con un’autentica vita associata e un forte spirito comunitario.
Ci sono dei « montesi » che non sono riusciti a integrarsi a Torino?, chiedo. Carmelo, 36 anni, magro e bruno, gli occhi intelligenti, lo esclude: « Bene o male – dice – ce la fanno tutti». Come mai? « Ci aiutiamo gli uni con gli altri ». Gli inizi, non si vergogna ad ammetterlo, sono stati assai duri. Giunse a Torino nel 1957 senza conoscere nessuno. S’impiegò dapprima come marmista, ma dopo 15 giorni fu costretto a cambiare mestiere: s’accorse che il proprietario non aveva né la intenzione, né la possibilità di pagarlo. Casi di questo genere, aggiunge, oggi non succedono più; l’abuso più comune è che i lavoratori nelle piccole imprese non vengano iscritti per qualche settimana alla previdenza sociale. Come sono i rapporti con i piemontesi? In complesso buoni, risponde. É opinione generale che stiano scomparendo risentimenti e incomprensioni dei primi anni di forte immigrazione. Vado a vedere un calzolaio di Montescaglioso, Mianulli, stabilito a Torino da prima della guerra: mi fa vedere la fotografìa di un suo figlio sposato con una bella ragazza piemontese. Le due figlie di un operaio edile, Laparecchia (?), sono fidanzate con piemontesi. I matrimoni misti sono probabilmente il segno più importante che l’integrazione tra le due comunità è in corso.
Comunque alcune ombre meritano d’essere registrate. Con Carmelo si è radunata tutta la famiglia: c’è la moglie, la sorella, il fidanzato della sorella, il padre e la madre e un numero ìmprecisato di bambini piccolissimi che giocano. É sera tardi: compaiono a ripetizione tazzine di caffè e poi una bottiglia di grappa. Ricordo ancora di aver girato la Lucania una quindicina d’anni fa, quando la miseria toccava punte spaventose: non si poteva entrare in casa di un contadino o di un bracciante senza che comparisse un caffè strazuccherato, forse qualche dolce comprato al bar dell’angolo: ai doveri dell’ospitalità non si sottraevano nemmeno famiglie che da settimane vivevano di pane e cicoria. I miei ospiti ammettono che la convivenza tra gente di usi diversi, specie nelle case popolari con mura sottili e molti abitanti, crea per forza qualche problema.
Razzismo? Sono piuttosto sfoghi, attriti: il caporeparto che in fabbrica chiama « napoli » il meridionale per rimproverarlo d’un errore, il collega che rimprovera agli immigrati d’essere venuti al Nord per « toglierci il lavoro ». Ma per fortuna sono episodi rari. I bambini, dice la madre di Carmelo, al paese c’è l’abitudine di lasciarli liberi per strada a giocare; qui giocano in casa e fanno rumore: magari accanto dorme un operaio che ha fatto il turno di notte e s’arrabbia. I « montesi » si sentono accusati di far baccano, disordine; replicano osservando che i piemontesi sono troppo silenziosi e chiusi.
Tirare la cinghia
Comunque i primi problemi dell’emigrato sono soprattutto economici: il momento difficile, spiega Carmelo, è nelle prime settimane. Lui per mesi all’inizio tirò la cinghia: viveva in una pensione senza bagno, né doccia, né un vero riscaldamento; dormiva in una stanzetta con cinque altre persone che stavano, per il poco spazio, a contatto di gomito. Per mangiare s’arrangiava tra mense popolari e pizzerie. « A volte – dice – volevo buttare tutto a mare, mi chiedevo perché dovessi fare tutti questi sacrifici ». Invece tenne duro e finalmente fu in grado di far arrivare la famiglia da Montescaglioso. Oggi le cose, conclude, vanno in maniera diversa: i « montesi » non si spostano più all’avventura. Prima di venire cercano un compaesano che sia disposto ad aiutarli. Non si tratta tanto del lavoro; a cercarlo, dice Carmelo, lo si trova sempre. Il vero problema è l’alloggio: bisogna evitare che il nuovo arrivato vada a finire in una pensione per emigrati, che per lo più sarà affollata, sporca e costosa. Non c’è che una soluzione: trovare un compaesano che lo ospiti. Del resto questa dell’alloggio è indubbiamente l’inquietudine maggiore per gli emigrati « montesi »: tra quelli giunti di recente, non ne ho trovato uno che sia soddisfatto di dove vive. Ho visitato soffitte, seminterrati, appartamentini in case fatiscenti. L., operaio in una piccola azienda, guadagna un po’ più di novantamila lire il mese; paga 28 mila lire il mese per un appartamentino che dà su un cortile e al quale si accede per mezzo di un ballatoio.
I figli studiano
A occhio la costruzione, uno stabile tozzo e largo della seconda metà dell’Ottocento, sembra che non sia mai stata rinnovata. C’è una cucina piccola ma adeguata, una stanzetta dì soggiorno con la televisione, e due camere da letto. L. ha moglie e sei figli: per otto persone è troppo poco. Non c’è bagno, il gabinetto in comune (un bugigattolo oscuro al termine del ballatoio) serve per altre due famiglie, e ciò provoca discussioni a non finire: è ovvio che per le sedici o le diciotto persone che se ne servono un gabinetto solo non basta. È importante, per rendersi conto dello stato d’animo degli immigrati, capire quel che condizioni come questa — che dura da 6 o 7 anni — possano rappresentare di umiliazioni nella vita di una famiglia.
Una famiglia – intendiamoci – che non ha nulla di cui debba vergognarsi: tutti i figli studiano, anche i due maggiori che hanno sedici e diciott’anni. Il padre vuole assolutamente che i figli, abbiano un’esistenza migliore di quella che ha avuto lui ed è disposto a pagarne il prezzo: « Ho avuto una vita difficile — dice semplicemente. — Ho fatto molto digiuno ». A conclusione dell’inchiesta, si può dire che i « montesi » ce la fanno a integrarsi in Torino, perché ce la mettono tutta e perché accolti umanamente. Ma bisogna ricordare l’altro lato della medaglia: la carenza gravissima dei servizi pubblici. I « montesi » partono in base a indicazioni che ricevono da parenti e amici. Gli uffici di collocamento, gli ispettorati del lavoro al paese non li aiutano a scegliere. Istruzione professionale per diventare operai non ne ricevono. Assistenza all’arrivo, poca o niente. Ed a Torino scarseggiano case, scuole, trasporti, ospedali. Emanuele Antezza è arrivato qui da Montescaglioso, dove ha lasciato la moglie e i figli qualche settimana fa. Dal 1962, l’anno in cui è andato in Germania, li ha visti solo raramente. É venuto a Torino per viverci con la famiglia; ma intanto deve abitare con un nipote perché non riesce a trovare una casa ad un prezzo sopportabile.
« Più di tanto non posso spendere. Certe volte mi urto, quasi perdo la testa – dice – Possibile che il mio destino sia di vivere da solo? ». Comunque queste crisi di solito non durano a lungo. Emanuele Antezza nelle ore libere dal lavoro impiega il suo tempo a cercare un appartamento, e soprattutto un proprietario comprensivo. Il suo è un caso tipico: nel mondo ci sono altre centinaia dì migliaia di contadini meridionali, oppressi dalla solitudine e dalla nostalgia e che tuttavia tirano avanti senza cedere.
Nicola Caracciolo
(Pagina 2 de “La Stampa” del 18.02.1970)
View Comments (1)
Toccante...rileggo la storia della mia famiglia...bellissimo